Drammatico, Sala

STRONGER

Titolo OriginaleStronger
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata119'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

La storia vera di Jeff Bauman: gravemente ferito nell’attentato alla maratona di Boston nel 2013, il giovane perde le gambe e diventa un simbolo suo malgrado.

RECENSIONI

La sostanza di Stronger sta in un problema di sguardo. Jeff, perse le gambe, non sa più riconoscersi: dimostra indefesso ottimismo al risveglio, ma la sofferenza arriva quando viene chiamato a osservare la sua parte mancante; distoglie lo sguardo, e l’inquadratura lo rileva con un fuori fuoco. Di rimando, suo malgrado, lui non si guarda ma gli altri guardano lui: lo interrogano, si aspettano l’eroe, chiedono la comparsa, lo riducono a slogan (Boston Strong). Gli occhi intorno gli negano il privato e lo espongono, rendono pubblico perché la sua pubblicità colma un vuoto, il corpo monco appaga il bisogno d’eroe, garantisce lo scudo psicologico, invita alla resistenza. A spaccare la dicotomia tra il sé e gli altri c’è poi uno sguardo terzo, quello di Erin, ragazza e amante carnale anche dopo il fatto, che come tale è estranea alla costruzione mediatica e si consegna al dato concreto della realtà: non a caso l’attentato viene iscritto nel suo volto, l’esplosione la leggiamo sul suo viso in controcampo, perché è lei la terza via, lo sguardo libero che può portare Jeff a vedere. Da parte sua, infatti, egli dovrà sapersi guardare: uscendo dal gorgo della retorica pubblica riuscirà a vedersi, realizzare il nuovo se stesso, dunque definire il proprio ruolo non più come vittima o eroe, ma come uomo e padre.
Il tema archetipico dell’“eroe” è da sempre un nodo complesso del cinema commerciale americano, che a intervalli irregolari si rinnova: appena sostenuto da Eastwood in The 15:17 to Paris, che ha provato a slittare la questione su un altro e “nuovo” terreno, sabotando la narrativa tradizionale del fatto attraverso l’uso come attori dei protagonisti veri, ovvero eroi che rifanno gli eroi. Qui David Gordon Green inscena la prima declinazione eroistica dell’attentato alla maratona di Boston del 2013, già cinematografato in Boston - Caccia all’uomo di Peter Berg in forma di thriller d’azione (del resto basti guardare alla scelta dell’attore: lì Mark Walhberg, qui Jake Gyllenhaal).

Tratta dalla sua stessa autobiografia, la storia di Jeff Bauman è parabola di un eroe che vaga attonito, dopo l’evento, quando diventa portabandiera della squadra di Boston e viene brutalmente risucchiato dal meccanismo: fagocitato dalla macchina dello spettacolo, per opposto, gli torna in mente la verità del ferimento, il tangibile della carne insanguinata che si contrappone all’immagine eterea di una folla esultante. Eccolo, quel problema di sguardo: un giovane disabile visto come idolo da applaudire, feticcio da mostrare, argomento di un discorso pubblico, piegato alla richiesta (in realtà imperativa) di essere continuamente guardato, partecipare a manifestazioni, fare selfie. La città gli impone di rappresentarla, e per metonimia l’America colpita dal terrorismo: tutto in lui fa notizia, anche la fisioterapia è uno scoop. In tal senso il racconto più vicino a questo è certamente Billy Lynn di Ang Lee: proprio come il ragazzo tornato eroe dall’Iraq, anche Jeff viene accecato dai riflettori, costretto all’evento sportivo in diretta (lì football e qui baseball, precipitati di una nazione), insomma spersonalizzato come uomo a favore dell’eroe, a servizio perenne del pubblico. Dal risucchio si passa al rifiuto, naturalmente, e l’anti-retorica si conferma una forma della retorica.
Al termine del percorso Stronger è un film post-traumatico ma non problematico: dall’ingranaggio mediatico alla maturazione del ferito, dal dramma delle vittime alla presa in carico, i suoi temi sono cenni; elementi sempre presenti ma non sviluppati pienamente, bensì posti e accumulati tra loro, in uno svolgimento automatico dove nessuno prevale sull’altro e sa farsi incisivo. Alla fine c’è, sempre, l’amore.
Gordon Green, regista per tutte le stagioni molto eclettico e poco personale, a rischio anonimato, azzarda un paio di trovate: la già citata prospettiva femminile dell’attentato, i ripetuti flashback del protagonista a segnalare la graduale epifania di sé; soluzioni che poco aggiungono all’essenza del compito svolto, che avanza tanto corretto quanto inerte e dimenticabile.