TRAMA
Due fratelli e una rapina finita male: Dave riesce a fuggire, Kenny viene arrestato. Quattro anni dopo Kenny torna in libertà, Dave ha una relazione segreta con la sua ex ragazza Sylvie.
RECENSIONI
L’esordiente Robin Pront gira sullo stesso terreno della trilogia di Fabrice Du Welz, le Ardenne, e i fratelli Dave e Kenny entrano in una locanda come faceva il protagonista di Calvaire: se lì si innescava una danza primitiva, riportando improvvisamente il contesto al suo stato atavico, qui essi vi si recano nel tentativo di occultare un cadavere nel bagagliaio. Non c’è paragone di sguardo, naturalmente, perché Du Welz nel trittico belga costruisce uno stile peculiare mentre Pront si “limita” a frequentare le forme del noir; però, a ben vedere, la strategia di rappresentazione della regione suggerisce una chiara assonanza. Luogo interiore, che Pront trasforma in titolo, come se fosse la zona ad emanare il racconto, all’inizio le Ardenne vengono citate in quanto spazio mitico e chimerico, ricordo proustiano delle escursioni dei fratellini con la mamma prima della parabola criminale («Sarebbe bello tornare bambini», dice Kenny, ed è l’unica battuta candida). Poi, sviluppandosi l’intreccio, cade il velo ed emerge la vera natura del luogo: dopo le gite infantili oggi in quei boschi si fugge, si nascondono corpi, si uccide a vicenda. È zona franca in cui tutto è lecito e si concretizzano perversioni, una no man’s land dove saltano i codici umani e relazionali, quindi si può amare la ragazza di un fratello e di rimando rispondere con l’omicidio: una sorta di “Ardenne dell’anima” avvolge il trittico dei protagonisti e forse li determina, lasciando sospettare che sia proprio il luogo a indirizzare le strade tragiche delle figure che lo abitano.
Qui si dispiega un noir archetipico imperniato sul triangolo: la premessa è solo funzionale come attesta il breve teaser che, in veloce successione, mostra i fratelli che eseguono il colpo con l’arresto del maggiore, risolvendosi nella simbologia elementare di acqua e fuoco (Dave in piscina, l’auto in fiamme). Ciò che rileva è piuttosto la situazione attuale: nel corso del tempo il più mite Dave (Jeroen Perceval) si è allontanato dal sottobosco illegale e ha intrecciato una relazione segreta con Sylvie (Veerle Baetens), ex ragazza del fratello, da poco rimasta incinta. L’uscita di Kenny (Kevin Janssens) è l’elemento che spacca la provvisoria serenità della loro condizione: da una parte rivuole indietro la sua donna, dall’altra trascina Dave di nuovo in terra criminale. Il racconto disegna uno scenario già compromesso, ineluttabile, tenuto insieme da un fragile equilibrio che sappiamo andrà in pezzi: da stabilire solo come e quando, in un andamento sismografico che mette i fratelli costantemente allo specchio, alternando scariche elettriche (ed elettroniche, nella colonna sonora) a momenti più quieti, ma sempre diretti all’inevitabile. Le Ardenne sono dietro l’angolo.
In tale scenario la fratellanza viene inscenata come continuo intreccio di pulsioni contrastanti. Se Kenny rappresenta indubbiamente il carattere più feroce, addensato del criminale ferino e gutturale appena rivisto nel Simoncino di Dogman, questi nell’intimo risulta altrettanto leale, come dimostrano i ripetuti riferimenti ai legami parentali e alla saldezza della famiglia; da parte sua Dave non esita a prendersi la ragazza del fratello in sua assenza coatta, insinuando perfino un meccanismo di sostituzione, ovvero un perverso “rapporto d’amore” in cui la donna va a rimpiazzare il posto occupato dal giovane arrestato. La relazione tra Dave e Kenny è, paradossalmente, sincera: al netto del segreto intervenuto negli anni di prigionia, il loro sentimento suona ripetutamente autentico, così da rendere il pasticcio in corso ancora più irrimediabile. Dalla profondità del rapporto fra i due alla sua dissoluzione inesorabile, il percorso delinea gradualmente una “anti-fratellanza” che procede spedita verso l’abisso. Il regista applica il modulo in un’atmosfera plumbea, fotografata sul grigio, col punto rosso del perenne giaccone di Kenny che “sporca” la monocromia del paesaggio, a enfatizzare anche visivamente la sua funzione di rottura. Lo stereotipo è evidente: tra consuete risonanze coeniane, il tasto grottesco degli struzzi e lo smaccato simbolismo finale (i fratelli che si rotolano nel fango), Robin Pront sfodera però il coraggio del noir senza redenzione; dentro il canone, certo, ma anche vischioso, perverso, che resta attaccato oltre la grammatica di genere.