Drammatico, Sala

THEY

Titolo OriginaleThey
NazioneUSA/Qatar
Anno Produzione2017
Durata80'
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

Si fa chiamare “J” e si fa dare del “loro”, perché non sa se essere un lui o una lei.
An intimate story about arriving home“, precisa il sottotitolo. Un racconto intimo sul giungere a casa.

RECENSIONI

In sala abbiamo Loro, They in inglese: pronomi personali impersonali, altro da sé, pluralità taciute e fin troppo note nell’accezione sorrentiniana, indefinitezza dell’identità sessuale per la regista iraniana che firma e filma la storia di un(a) adolescente che non sa cosa essere, se ragazzo o ragazza; e, per prendere tempo, si sottopone al trattamento medico di sospensione della pubertà.

«I don’t know my age (...) / tell me how old I am» scriveva Elisabeth Bishop nell’ottobre del ’52, “non conosco la mia età/ditemi quanti anni ho”, parole sussurrate a dar voce a un pensiero in un film taciturno, se non fosse che parlano gli altri, i non-protagonisti, gli specialisti, i parenti stretti, mentre chi vive quel periodo strano che si usava dire “ingrato”, quella mescolanza di cose incerte e autentiche che si è lieti di aver superato -nonché rimosso- che è l’adolescenza, in fondo non sa, non ha la cosiddetta maturità per sapere, e quando la avrà, avrà dimenticato tutto ciò che non sapeva: fra queste due età non comunicanti, c’è un’identità da definire, un passaggio, un foro tra due muri come quello scavato nelle reciproche camerette da J e sua sorella. E il silenzio a volte non è d’oro, ma a fiori, come quelli che J coltiva, annaffia, attende, indossa in un abito fuori moda -brevi stacchi floreali e desaturati al suono di un carillon sono l’immagine più prossima al suo stato di sospensione-. Tutt’intorno, l’ancor più imprecisato mondo dell’arte e della performance che emerge a sprazzi fra la sorella artista-attrice sollecita ma dal timbro scostante e il fidanzato iraniano; scene di vita quotidiana di iraniani a Chicago sull’onda meno riuscita del Kechiche più riuscito, quello di Cous Cous; i genitori distanti; il medico che guida e rassicura. Così, cullati da fiori, poesie, carillon, immersi nel pallore fotografico che tutto risolve nell’attributo della delicatezza, esentati dal riflettere dall’aria lattiginosa del mattino che coincide col tramonto dell’indie e abbracciando stereotipi d’autore, dimentichiamo che l’interruzione medica della pubertà non è un vezzo poetico, ma una realtà, ignorando forse che, dopo le controversie nel mondo anglosassone, le iniezioni di triptorelina si stanno diffondendo anche Italia per il trattamento della disforia di genere, e neanche ci domandiamo se l’effettiva conformazione fisica di J abbia senso o meno nella definizione della sua identità sessuale, il dato biologico scompare nella culturalità del gender, al punto che non ci si pone il dubbio se inibire chimicamente lo sviluppo sia una cura o una repressione fenotipica, se sia un aiuto o una manipolazione. Proprio perché la questione è delicata, ma non nel senso delle tinte pastello, metaforiche e non, tutto questo non può giacere in una narrazione sospesa e puberale e va oltre il racconto di non-formazione che rischia di diventare disinformazione, pacificando un terreno vivo e difficoltoso che ha a che fare con l’identità ben al di là della mesta dolcezza di un’età transitoria. Viene a questo punto da chiedersi se quell’ “I don’t know my age” non meriti una doppia lettura: non conosco la mia età, nel senso di età anagrafica e nel senso del non conoscere la propria epoca, dell’essere estranei al proprio tempo, interiore ed esteriore, tempo della definizione identitaria che la poetessa americana sapeva tratteggiare con tale accuratezza che i suoi versi, pur evocativi, non sono mai vaghi. Una felice scelta da parte della regista Anahita Ghazvinizadeh che pure si dichiara sospesa in una questione di appartenenza, fra la terra di origine e quella di approdo, Iran e Stati Uniti, ma che opta per una poetica troppo tenue, quasi estenuata, che ha valore solo come evocazione.

Presentato al Torino Film Festival dopo il debutto al 70esimo Festival di Cannes.

Cinecromie – Gradiente di genere

Nell’efficace grafica che promuove il film –si veda la bellissima locandina-, toni di rosso e di ciano sfociano l’uno nell’altro: da bravi complementari si oppongono e si completano, letteralmente dipingendo il tema transizionale della storia. Sfocature e ricami floreali completano l’immagine alludendo alla cifra stilistica che nel film racconta J e il suo mondo ancora da decidere. Anche quel suo scamiciato a pieghe, senza forme, da bambina ma non da donna e nemmeno da ragazza, abbinato ai capelli corti da ragazzino, è color ciano, a rose rosa e rosse, felicissima scelta di costume.

Nota:
J, nella realtà, è Rhys Fehrenbacher, giovane attore transgender.

Nel film, sua sorella si riferisce a J come “my sibling”, dove sibling in inglese sta per fratello o sorella, o fratello e sorella, risultando dunque intraducibile in italiano. La scelta di renderlo con “mio fratello” è dettata da questa intraducibilità e forse optando per il sesso effettivo dell’attore, ma non corrisponde al reale significato originario del termine.