Avventura, Drammatico

CHARLEY THOMPSON

Titolo OriginaleLean on Pete
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2017
Durata121'
Sceneggiatura
Tratto dal romanzo Lean on Pete di Willy Vlautin

TRAMA

Charley Thompson, quindicenne, sogna una casa, del cibo nel piatto e una scuola da non dover cambiare in continuazione. Ma è difficile trovare un po’ di stabilità, se si è figli di un padre single che si arrangia con lavori precari nei magazzini lungo il Pacifico nordoccidentale. Con la speranza di iniziare una nuova vita, i due si trasferiscono a Portland, in Oregon, dove Charley trova un lavoro per l’estate presso un malconcio addestratore e diventa amico di un vecchio cavallo, chiamato Lean on Pete.

RECENSIONI

Non ho amato particolarmente i due titoli precedenti di Andrew Haigh: la lavoratissima scrittura mi sembrava contraddire l’impostazione realistica dell’impianto narrativo (si pensi soprattutto a Weekend, a quel finale calcolato - laddove quello di 45 anni, invece, era davvero sublime, il momento più alto di un’altra opera che mi sembrava congelarsi nelle sue sottigliezze -). Ottimi film, sia detto, che già testimoniavano di un pregevole lavoro sugli attori e di uno stile personale (si veda anche la serie tv Looking), ma inchiodati al piano che era loro sotteso, quello di un dramma abitato da un sentimentalismo crudele, troppo intellettualizzato e programmatico per essere davvero convincente. Lean on Pete spazza via queste incertezze perché la storia di Charley, ragazzo solitario e sensibile che stabilisce un forte legame con un cavallo, vive sullo schermo con grande naturalezza e in cui la logica della scrittura rimane in trasparenza, giocando su toni minori e aspetti secondari, su dettagli che emergono dalle situazioni senza essere imposti, in cui una felice vocazione descrittiva trova modo di dispiegarsi grazie a una non convenzionale gestione dei tempi: Haigh, puntando su un registro contemplativo, lascia che il vero emerga, non lo inventa a uso e consumo dello spettatore. Così il modo in cui due emarginazioni si riconoscono (quella del cavallo Lean on Pete, rottame del passato, animale drogato per ottenere gli ultimi risicati risultati, e quella del quindicenne protagonista) viene raccontato senza alcuna sottolineatura. Così si glissa sulla perdita materna, per esempio, anche se si percepisce che costituisce il trauma col quale il ragazzo si confronta di continuo. E si allude al ruolo paterno dell’addestratore di cavalli, che va a costituire un modello educativo alternativo a quello del genitore naturale (un padre orgoglioso, immaturo, amichevole e perciò inadeguato) e dotato di quel senso della realtà che in casa latitava (spinge Charley a fare altro, prima che non abbia più altre opportunità di cambiare, rimanendo intrappolato nel mondo dell’ippica). Così come si sottintende che ragazzo e cavallo siano la stessa cosa, due esseri senza colpa e senza un posto al mondo. La scelta del titolo originale - che, uniformandosi a quello del romanzo, al nome del giovane protagonista preferisce quello del cavallo - ci conferma che, anche nella visione del regista, i due pari sono. E che su questo rispecchiamento Haigh focalizza la sua attenzione, tanto che, a differenza di quanto avviene nella (bella) novella del cantautore Willy Vlautin, nel film Charley si rifiuta di cavalcare Pete, gesto che ne sottolinea l’individualità, l’autonomia. L’orgoglio che anima il ragazzo è lo stesso che riconosce e rivendica per l’animale, che lo porta a non chiedere aiuto ad alcuno, a raggiungere la zia (e la sua idea di famiglia come di un punto fermo, un porto sicuro dopo tanta precarietà) con le proprie forze, rifiutando qualsiasi aiuto.
Charley, parlando con lui, si concede un’introspezione a lungo rimandata, ne fa, per l’appunto, lo specchio nel quale riguardare le ferite che lo hanno segnato e che non ha mai mostrato a nessuno: il cammino intrapreso lo conduce alla piena rivelazione di se stesso, un percorso che costerà all’animale la vita e al ragazzo l’innocenza. E in questo viaggio formativo, quasi a sottintendere una sessualità ancora indecisa, Haigh, nel rispetto di tutti i topoi del road trip, ne omette uno, quello della tappa amorosa (altra differenza col romanzo, il che sottolinea una scelta precisa nel delineare il personaggio in sede di sceneggiatura).

Haigh dispiega mirabilmente questo percorso iniziatico, con un’armonia sconosciuta ai due film precedenti: la purezza (poi deturpata) del protagonista non suona mai teoremica, ma si esprime in maniera viva ed emozionante; la ricerca di un centro solido al quale agganciare la sua esistenza non si affida a soluzioni letterarie, ma poggia su azioni e dialogistica essenziali, efficaci; il modo in cui la narrazione dà conto dello sviluppo e della maturazione del carattere suona sempre aderente nei toni, mai precipitoso o incoerente. Ma, al di là della superlativa scrittura, è la messa in scena di Haigh a essere pienamente convincente: il cesellato gioco attoriale (tutti gli interpreti, ma Charlie Plummer è magnifico nel suo adolescente smozzicare le frasi - per chi avrà la fortuna di vederlo in originale -), il modo in cui la rappresentazione si concentra sul protagonista - ma aprendo l’osservazione ai contesti che questi attraversa e ai personaggi che incontra -, la cura del sonoro, l’esattezza della fotografia.