Drammatico, Sala

OLTRE LA NOTTE

Titolo OriginaleAus dem Nichts
NazioneGermania/Francia
Anno Produzione2017
Durata100'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia
Musiche

TRAMA

Un’esplosione ad Amburgo le ha portato via il marito, curdo, e il figlio. Sono gli unici a essere rimasti uccisi. Katja, che quel pomeriggio era altrove, è sconvolta, ma gli eventi la costringono a farsi molto presto coraggio: è stato un attentato, e vuole i colpevoli. C’è un processo  che vede imputati una giovane coppia, marito e moglie, neonazisti. C’è soprattutto, a corrodere Katja, il sentimento di perdita che diventa poi, progressivamente, di vendetta.

RECENSIONI

Il padre aveva segnato «un "prima" e un "dopo"» nel rapporto di Fatih Akin con la Turchia: «Eravamo sposati. Adesso abbiamo divorziato», raccontava al tempo. Un'opera che non andò giù alle autorità, politicamente inaccettabile, mentre il suo cinema trovava in qualche modo un compimento, più privato che personale,  una sorta di circolarità, di propria coerenza. Poi, sì, la patina e la confezione, racconto e messa in scena del film a stento riuscivano a contenere i limiti di un regista che non aveva mai particolarmente brillato  - anche nei suoi esiti migliori e nelle declinazioni varie di genere e narrativa del suo percorso autoriale  - nel concedere allo spettatore un reale dialogo, spazi di sguardo senza automatismi. Per questo, successivamente,  un lavoro minore e più distaccato come Goodbye Berlin, tratto dall'omonimo romanzo di Wolfgang Herrndorf, pareva quasi creare una breccia in una produzione oramai imbolsita, anche stucchevole, apparendo come inaspettato esercizio di ingenua e scanzonata levità lungo le strade del road movie adolescenziale. Oltre la notte, invece, finisce col ricondurre a un Akin più riconoscibile e monolitico: qui, però, come spesso in passato, non solo mancano gradazioni, variazioni e variabili, ma è l’intera sostanza del film  - che difficilmente riesce a farsi accogliere come qualcosa di diverso da un blocco unico, non sezionabile, nonostante una divisione a inseguire e mimare la cadenza in atti  – ad apparire ambigua.

Dal canto suo, Akin, è vero,  le cose non le nasconde. Ed è comprensibile che, a proposito della sua protagonista, dica: «Pur essendo una donna tedesca, bionda e con gli occhi azzurri, Katja è il mio alter ego». È comprensibile, e fin troppo naturale, che stia dalla parte della vittima in questo film, che nasce dopo una serie di violenze e omicidi a sfondo razziale in Germania, a partire dal 2000, per mano della NSU (Nationalsozialistischer Untergrund), formazione terroristica che ha assassinato persone anche vicine alla famiglia del regista. E, come nel film, anche nel mondo reale le indagini non hanno risparmiato violenza ulteriore ai parenti delle vittime, chiamando in causa i rapporti presunti  o effettivi, passati o presenti  degli uccisi, con l’ambiente dello spaccio e dell’illegalità. Akin - aiutato in sceneggiatura come già  in Goodbye Berlin  da Hark Bohm (che è anche avvocato ed è stato prezioso per studiare il processo  alla NSU avviato nel 2013 a Monaco di Baviera) - costruisce tutto intorno a Katja. Ma pedissequamente, ossessivamente. La frequente pioggia battente, i tatuaggi che decorano il corpo bianco di lei, i famigliari, il rapporto difficile con quelli più stretti e di reciproca incomprensione con quelli acquisiti,  il funerale, le droghe assunte per rendere meno annichilente il lutto; e i ricordi, i filmini casalinghi, il processo: al regista non interessa fare drammaturgia di tutto questo, ma è come se volesse schiantare il tutto sulla donna, come eterni stati di coscienza o incoscienza continuamente violate, violentate, in una estetizzazione greve, caricata, infine banale. Fa questo, ma con l’effetto paradossale, tuttavia, di sottrarre in questo modo alla protagonista il film stesso (e pare quasi un'assolutizzazione involontaria, in tal senso, il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes 2017 per Diane Kruger). Ecco perché, allora, non può esserci così neanche vera aderenza tra Akin e Katja, come se a emergere davvero fossero la parola del regista, la sua scrittura, la sua visione totalizzante e occlusiva (tanto che perfino le musiche scritte da Josh Homme dei Queens of the Stone Age, la band che ha accompagnato a lungo gli ascolti del regista  durante la sceneggiatura, vengono quasi risucchiate, scompaiono con tutto il resto, quasi mero dato tra i credits). Ecco perché il ciclo mestruale di Katja, che si interrompe dopo la morte dei suoi cari e, in un momento preciso, torna regolare, non può dirci molto di più, al di là dell’effetto minimo e ottuso che l’autore impone. Ecco perché, infine, l’ultima porzione narrativa (di un film che tracce di complessità non può raggiungerne, e in parte lo si può anche capire), quella postprocessuale e a trazione revenge, appare la più debole  e rischiosa. Peggio ancora: la più grezza.  E, proprio per questo, l’epilogo è la scena perversamente più seducente: è qui che tutto il senso distorto e doppio di Oltre la notte finalmente può  spandersi.