TRAMA
Opera prima di Samuele Sestieri e Olmo Amato finanziata da una campagna di crowdfunding, nasce da «un’autentica scommessa: girare un film in due sole persone, durante un viaggio di quaranta giorni tra Finlandia e Norvegia» (note di produzione). La storia ruota intorno al salvataggio di un orsetto da parte di due strani personaggi, in una terra desolata…
RECENSIONI
Il sedile posteriore è un luogo privilegiato, dove la strada non è uno spazio fermo che si percorre, ma un panorama in movimento che scorre nel riquadro di un finestrino, un rifugio in cui tacere, osservare, che consente la distrazione, l’abbandono, il sonno. Parlano di qualcosa di trascurabile, gli adulti, lì davanti; una bimba si addormenta accanto al suo film privato e fornisce la cornice e il pretesto, a due giovani registi, di raccontare una storia che appartiene all’immaginazione: un viaggio diventa l’occasione di un film, una terra straniera è il terreno di un sogno.
Non poteva che essere rosso l’omino che avanza con andatura da primate, un punto acceso in movimento che emerge nel verde e chiede di essere seguito, perché porterà da qualche parte, tracciando il filo di una storia; lo affianca una figura monastica, steampunk, sabbipode, con circospezione e poi con eterogenea complicità; i due attraversano il paesaggio immobile dei laghi, dei cieli nordici, delle grandi foreste di conifere, con fare singolare e comunicando per versi astrusi, ciascuno il proprio, tuttavia senza frantumarne la quiete. Anzi, fra gli alberi, a terra, solo, forse dimenticato, giace qualcosa che appartiene allo stesso tempo alla natura e all’industria, alla fiaba e alla realtà, all’umano e all’animale, il motore del discorso, il compagno di giochi: l’orso.
Bestia antica, nobile e feroce, brutale mangiatore di uomini e di miele che popola i boschi e i racconti –appunto-, spopolando nella tradizione orale, e che, per via di un vecchio aneddoto su Theodore Roosevelt che risparmiò un esemplare in una battuta di caccia, finì in un corpo di peluche e si chiamò Teddy. Bear. Primo amico e compagno di sonno dei bambini, ha col tempo accentuato iconograficamente il proprio antropomorfismo che già lo voleva quasi bipede, diventando, in forma di orsetto, il viatico degli abbracci infantili. Da Winnie the Pooh e Christopher Robin, Mowgli e Baloo, Leonardo di Caprio e l’orso che quasi gli soffiò l’Oscar per Revenant, il giovane Brad Pitt e il grosso esemplare che gli garantiva la migliore morte in Legends of the Fall, fino all’Uomo e al Grizzly herzogiani, passando per Dead Man in cui fra quello impagliato di Robert Mitchum, il peluche con cui dorme il killer e il racconti intorno al fuoco con Iggy Pop che narra di Riccioli d’oro ci sono orsi di ogni tipo, la letteratura e il cinema sono pieni di storie in cui la natura, l’uomo e l’orso si intrecciano tematicamente. È un rapporto simbolicamente inesauribile, una cucitura semplice, se praticata con sensibilità. E qui torniamo al punto: i due eccentrici eroi-compagni di giochi del film, prestano soccorso all’orso ferito con lo stesso riguardo con cui i due registi percorrono, filmano e interpretano il luogo che ospita il loro viaggio, trasformando la trama infantile, la nenia, le gag un po’ bambinesche, in rito, valorizzando e stemperando insieme la bellezza appuntita di certe chiese scandinave, allestendo un campo di spaventapasseri che sussurrano preghiere al sole -probabilmente il momento più delicatamente straniato del film- (i due personaggi si avvicinano, si uniscono al culto appena scoperto, il sole risponde picche e rinvia la questione alla luna, come un padre che dica “chiedi a tua madre”).
Non è un film sul tornare bambini, né lo richiede -non ha retorica fanciullesca e risolve quella fiabesca cercando complicità poetica-, semmai presuppone di esserlo, nel senso del possedere ancora uno sguardo piccolo, una curiosità non decaduta, di abbracciare, con semplicità, il suo punto di vista. Dall’altra parte, si offre come discorso personale, risultato di un desiderio creativo che non sempre cerca lo spettatore al di là della propria emergenza espressiva, ed è quest’ultima che diventa film non previsto, conservando il tratto vago di una storia non affidata alla scrittura, né alla pura immagine, ma all’esperimento, che riceve solidità nella post-produzione, soprattutto sonora, ma resta esile. Trae forza dalla sua sincerità, per cui anche l’ingenuità esibita può essere presa per buona, perché non ha timore di filmare il tenersi per mano come atto spontaneo, di tramutare inghippi logici in bizzarrie ironiche (il dubbio su come bere un succo senza bocca svanisce, scavalcato dall’ostinazione di inzupparvi un biscotto troppo grande senza spezzarlo, ricordandoci che siamo in un gioco, prima ancora che in un sogno), di mettersi in scena per il desiderio di farlo, senza paura della fragilità e dello stupore, scegliendo come rappresentante non un guerriero finnico né Burzum, ma un orsacchiotto inerte e, soprattutto, inerme.