TRAMA
Christine McPherson è di Sacramento ed è un’ambiziosa liceale all’ultimo anno. Sogna un’esistenza diversa in una città della costa orientale tra i grattacieli, i college e la cultura cosmopolita.
RECENSIONI
NON CHIAMARMI COL MIO NOME
Mi libero di una sensazione che ho avuto da subito guardando il film e che sicuramente non c’entra nulla con il piano dell’opera e molto con la mia percezione di essa. Lady Bird mi ha ricordato tantissimo Primo amore (Alice Adams), capolavoro di George Stevens del 1935 con Katharine Hepburn: stessa protagonista egotica, stesso quartiere povero e stessa vergogna, stessa coscienza di classe e stesse frustrazioni. E così le bugie e gli appuntamenti generazionali. E il rifiuto di una condizione, la voglia di superarla.
Il film di Gerwig è ambientato a Sacramento, nel 2002, anno chiave della vita della protagonista, specchio dell’autrice (stessa età, stesse radici geografiche e culturali: si chiama Christine come la madre della regista-attrice). Autoimponendosi un altro nome (Lady Bird, per l’appunto), la giovane mette da parte ciò che le è stato dato in sorte, ciò che la riconnette a un ambiente e a una condizione che ritiene ripudiabile, tradendo la smania di scrivere finalmente in autonomia il romanzo della propria vita. La ribellione e l’egoismo propri di un’età la conducono alla scoperta di primi piaceri e specifiche potenzialità: la condizione economica e i rapporti familiari diventano dunque un ostacolo ad ambizioni imperiose che si avvertono legittime, ineludibili (New York, la Columbia, il college prestigioso e lontano dal nido). Per cui fanculo Sacramento, fanculo i sacrifici dei genitori, fanculo tutto: c’è in gioco il suo futuro. Lady Bird è un bulldozer lanciato contro l’equilibrio già precario della famiglia (la presenza di un figlio adottivo più grande ci fa pensare che costei sia una figlia giunta fuori tempo massimo, non prevista - anche nel bilancio familiare -) e contro una madre (figlia problematica anch’essa - di un’alcolizzata -) con cui, nel difficile trapasso dell'adolescenza, il rapporto consiste nel sadomasochistico cercare il reciproco malinteso, un farsi male per ottenere un “mi dispiace” che però né l’una né l’altra, uguali come sono, riescono a emettere; un incrociarsi di sensi di colpa che si incarta nel silenzio finale che verrà disinnescato dal padre, deus ex machina.
Ciò che trovo davvero interessante di Lady Bird è un aspetto del personaggio principale: la costruzione che questa ragazza (Saoirse Ronan, perfetta) fa in modo autonomo, astorico e informale di un’identità nuova di zecca, sottende un discorso di autodeterminazione e di emancipazione sociale che è ossessivamente classista, profondamente americano e, come quello di Primo amore (la lotta per uscire dalla bicocca in cui si abita - che è sintesi di una condizione - e fare il dannato salto sociale), conformista nel midollo.
Lady Bird è attenta solo ai suoi scopi e così fa esercizi di opportunismo: quando in una scena il padre le dice «Ti voglio bene», lei non gli concede l’«Anch’io» fino a quando non sa di aver ottenuto quello che aveva chiesto. Quel passaggio è una spia che fa luce sul suo carattere e sullo stesso finale. Che pare lieto, ma è succube della stessa logica: la riappacificazione non avviene a Sacramento, avviene a New York, dove finalmente la nostra è riuscita ad arrivare. L’identità rifiutata e poi riabilitata (nella Grande Mela ci si fa richiamare Christine, si decide persino di andare in chiesa la domenica) segna la riconciliazione con quel contesto familiare cattolico che è lo stesso, attenzione, che le ha permesso di essere lì e di riaffermarsi. Con tutto il portato ipocrita (e dunque cattolico anch’esso) che questa cosa comporta: al di là del poeticistico sovrapporsi del punto di vista materno e filiale sui luoghi (comuni perché fondativi), la ragazza si riappacifica con la madre (e con le sue origini, di conseguenza) solo perché è riuscita a essere dove desiderava, ad avere quello che voleva. Quindi all’affetto genitoriale (un «ti vogliamo bene» espresso nella possibilità concreta data alla ragazza di frequentare l’università desiderata), la protagonista può finalmente rispondere con un messaggio conciliativo (che è il suo simbolico «Anch’io» snocciolato a obiettivo raggiunto, come una moneta di scambio). In soldoni: fosse rimasta a Sacramento la nostra starebbe ancora a sgranare i suoi fanculo.
Certo, non basta costruire una storia in cui far vivere una protagonista atipica, una ragazza antipatica (nel senso che rende difficile l’empatia), dominata da un’ansia di controllo a cui fa riscontro una cosciente inadeguatezza, una persona in fieri, preda degli umori individualisti di un’età, perché poi si gridi, come si è fatto, al miracolo (il film è stato il prezzemolo della stagione dei premi). Lady Bird rimane un’opera agrodolce che possiede una sua grazia, ma che accosta situazioni in modo piuttosto semplicistico, complicandole appena e spargendoci sopra col contagocce qualche battuta salace che indoviniamo annotata su un quaderno per poterla snocciolare al momento giusto. È un film di figure definite che convivono con veloci bozzetti in un racconto che si scopre programmaticamente aneddotico. Che inanella miniature di carattere (aiuta molto l’indovinato cast) incastonate, però, in un diario minimo dal respiro corto, che fida, sornione, sull’esplorazione consapevole dell’armamentario abusato del teen movie, squadernato ad nauseam da tantissimo cinema indie: l’amica del cuore sfigata, la ragazza cool di cui si cerca la considerazione, la recita di classe, il primo amore (appunto) che è quello sbagliato e un secondo amore che è più che altro sesso che serve a togliersi l’impiccio della verginità, le delusioni e i drammi di personaggi affrontati e sfiorati (la depressione del padre, il prete con la sua storia familiare, un tormentato coming out eccetera). Figure e luoghi ritagliati con la coscienza del paradigma che dicono di un’autrice lucida alle prese con un film che in questa consapevolezza si irrigidisce.