TRAMA
Caniba è un affresco su carne e desiderio. Riflette sulla sconcertante significazione del cannibalismo nell’esistenza umana attraverso il prisma di un uomo giapponese, Issei Sagawa, e la sua misteriosa relazione con suo fratello, Jun Sagawa.
Studente di 32 anni alla Sorbona di Parigi, Issei Sagawa fu arrestato il 13 giugno 1981, quando venne notato svuotare in un lago al Bois de Boulogne due valigie insanguinate contenenti i resti della sua compagna di corso, Renée Hartevelt. Due giorni prima l’aveva uccisa mentre stava traducendo poesia romantica tedesca dopo cena nel suo appartamento. Dopo averle sparato alla nuca, Sagawa l’ha stuprata e mangiato a modo suo parti del cadavere. Infine, affaticato e stordito dal calore e dall’odore, ha deciso di disfarsi dei resti. Dichiarato legalmente malato di mente, ha fatto ritorno in Giappone. Da quel momento è stato un uomo libero. Messo al bando dalla società, ha vissuto del suo crimine per più di 30 anni. Ha scritto romanzi e manga che rievocano il suo delitto nel dettaglio. È stato protagonista di documentari e film porno. Ha anche lavorato come critico gastronomico. Manifesta ancora il desiderio di consumare carne umana e morire per mano e nella bocca di un cannibale.
RECENSIONI
Del film resta una pulsazione. Quella del fuoco della videocamera che continua a perdere il soggetto ripreso (anche in senso letterale: lo riacchiappa all'improvviso per poi perderlo di nuovo e così via). Si è detto che Caniba è un horror di parola: l'orrore della rievocazione necrofaga provocato dal monologo plurilingue di Issei Sagawa (e la commistione degli idiomi parlati aggiungerebbe un coefficiente satanico all'eloquio babelico del mostro). Troppo facile. Piacerebbe molto che fosse così: l'attribuzione a un genere codificato porta con sé tutto un movimento di distanziazione rassicurante dello spettatore. Sei al riparo, puoi vedere con gli occhi della tua cultura cinefila. Invece no. Qui siamo in pieno cinema del reale, ma non del reale inteso semplicemente come realtà da rielaborare cinematograficamente, magari in sede di montaggio. Il reale con cui abbiamo qui a che fare va considerato in senso rigorosamente prerazionale, ovvero quel grumo di energia informe che l'impronta del simbolico (il linguaggio, le categorie della ragione, il pensiero organizzato) dispone in calchi definiti, come le formine da spiaggia dei bambini fanno con la sabbia. Qui, e questo è il bello/brutto, abbiamo a che fare con la sabbia informe, non con le figure geometriche prodotte dalle formine. Alla fine Caniba non è un horror più di quanto non sia una commedia (si ride molto durante la visione di questo film, perché il godimento che impregna il reale mischia angoscia e giubilo in un solo rictus).
C'è anche un aspetto antropologico, ci mancherebbe. Quello che intende colmare la lacuna nella rappresentazione del cannibalismo, ossia la mancanza di interesse per la soggettività del necrofago. E poi questa prossimità fisica con Issei e il fratello Jun ci impedisce di mantenere una distanza di sicurezza dalla materia rappresentata: Caniba è anche una riflessione non giudicante su una pulsione che ha sempre fatto parte della condizione umana. Issei parla in modo sconnesso del suo desiderio, il fratello interviene e commenta, prendendone spesso le distanze e condannando apertamente la sua deviazione. Tuttavia non riusciamo a decidere il nostro ruolo di fronte a queste due figure che ci appaiono ora come oggetti bizzarri ora come corpi logori e devastati dal loro stesso desiderio (non solo il cannibale conclamato Issei: Jun ha bisogno di perforarsi la pelle del braccio per raggiungere l'eccitazione). Inquadrature più larghe, è ovvio, avrebbero immediatamente stabilito un regime discorsivo più normativo. D'accordo, ma siamo ancora nell'ambito del linguaggio, del simbolico, del comprensibile: comprendiamo che non siamo messi in condizione di giudicare. Il lavoro - o meglio il traffichio audiovisivo - di Paravel e Castaing-Taylor si spinge invece con ustionante incoscienza nei territori dell'informe, di ciò che sta prima (o dopo, è esattamente la stessa cosa) di questa realtà a cui possiamo accostare qualsiasi aggettivo di comodo (antropologica, culturale, ancestrale e via blaterando).
La pulsazione focale che irrora di energia Caniba ha qualcosa della radicalità sensoriale di Sombre (1998) di Philippe Grandrieux, della sua potenza opaca e pregrammaticale: la captazione intermittente di un soggetto al contempo presente e assente a se stesso. Issei è lì di fronte alla camera ma continua a uscire dalla propria identità, a perdersi nel flusso di una corrente psichica che lo sovrasta e annulla come soggetto. Non è soltanto una testa parlante, ma una testa squassata dal reale (e il suo apparire spesso come una bocca da soddisfare ci proietta nella dimensione infantile in cui a dettare legge non è l'ordine del simbolico, ma la bulimia del godimento). Il fuoco variabile trascina insomma la visione in questo continuo andirivieni di presenza e assenza del soggetto, in un flusso di (in)coscienza dove il linguaggio non occupa che una piccolissima parte. Marginalizzazione del linguaggio e contraccolpo sulla posizione stessa della camera, anch'essa presente e assente dalla scena come dispositivo di registrazione: il gioco tra esserci e non esserci non risparmia l'apparato guardante. La camera scivola, slitta, riprende ma non fa presa. Si dimentica di essere una macchina preposta allo svolgimento di un compito preordinato, la mostrazione. Il disfacimento di un soggetto, il documentario su Issei Sagawa, ecco che cosa realmente è e non è Caniba. Carne e desiderio, al di là del simbolico.