TRAMA
Mississippi. Due famiglie, una nera e una bianca, affrontano la dura realtà tra pregiudizi, agricoltura e amicizie, in un mondo diviso durante la Seconda guerra mondiale.
RECENSIONI
Dee Rees adatta il romanzo Mudbound di Hillary Jordan (in italiano Fiori nel fango), mettendo allo specchio due famiglie in Mississippi dalla fine degli anni Trenta: i McAllan e i Jackson, l’una bianca e l’altra nera. È l’occasione per allestire un nuovo Racconto Americano, per iscriversi nel cinema sulla questione razziale proponendo la versione di una regista donna nera che traduce il libro di una scrittrice bianca. E la messinscena inizia proprio nel fango, con due fratelli bianchi alle prese con la simbolica sepoltura del padre, che metaforizza l’ipotesi di superare il razzismo (letteralmente: seppellirlo) nelle generazioni future. I due chiedono aiuto al capofamiglia nero, in una scena che si rivelerà flashforward per poi tornare al termine dell’intreccio. La regista, sia visivamente che concettualmente, ha già messo sul tavolo il suo discorso: il fango avvolge la Storia americana, dove le vite dei personaggi si dibattono a metà Novecento, i cui schizzi si alzano a più livelli, non solo nella dominazione dei bianchi sui neri. È anche il ruolo della donna, qui incarnato in Laura/Carey Mulligan, che viene sondato quando essa “decide” di accettare il primo matrimonio disponibile; è anche la società patriarcale a cui si guarda, nella figura del padre Pappy/Jonathan Banks duro e rigorosamente razzista, dal quale per i figli è impossibile affrancarsi; è perfino sulla comunità nera che si riflette, in particolare sul suo meccanismo interno, che vede il padre Hap/Rob Morgan più dimesso e avvezzo alla sottomissione “contro” il figlio Ronsel/Jason Mitchell che rivendica un diritto di uguaglianza. In mezzo infatti c’è stata la guerra: bianchi e neri hanno combattuto insieme, conquistando la medesima posizione sul campo di battaglia, svolta che rende il razzismo improvvisamente paradossale (l’esplicita puntualizzazione di Ronsel: «Lì ero un liberatore, qui sono solo un negro che spinge l’aratro»). La questione, poi, è meno definita e più sfrangiata di così: c’è la donna bianca che, con i figli malati, ottiene l’aiuto decisivo della levatrice nera. C’è il soldato bianco che si avvicina al soldato nero, ma le sue intenzioni - in parte - sollevano il dubbio di un lenitivo per la coscienza della nazione bianca assediata dal senso di colpa.
Davanti a una messe di spunti estremamente complessi, già molto frequentati e a tratti banalizzati, Dee Rees organizza il racconto come una polifonia: attraverso l’uso della voce fuori campo, essa passa fluidamente da un personaggio all’altro, lasciandoli parlare, focalizzando internamente su ciascuno di loro. È così che si instaura un dialogo indiretto tra bianchi e neri, sviluppato proprio attraverso la scelta narrativa: anche se applicata diversamente ai rispettivi caratteri, la voice off ci rivela che ognuno ha le sue speranze, sentimenti, dolori e aspirazioni. Da Laura rinchiusa nella bolla di convenienza e attratta dal fratello del marito, alle sofferenze dei neri nei campi passando per la ribellione di Ronsel all’arretratezza dell’entroterra, i tormenti hanno la stessa dignità, seppure differenti sono uguali. Il superamento del razzismo per la regista è quindi dentro la forma del racconto. Questa la strategia di Mudbound, il suo tentativo umanista: chiamare chi guarda a una responsabilità attraverso l’esercizio di un mezzo eminentemente cinematografico, la voce fuori campo. Per il resto il film sviluppa le sue figure centrate sugli attori (spiccano Garrett Hedlund e Mary J. Blige, ma tutti sono adeguati) a volte sfaccettate e contraddittorie, altre più facili e prevedibili, in una scrittura esplicativa che prevede sfumature per alcuni e per altri decisamente meno (il padre bianco come quintessenza del razzista: è cattivo punto e basta). Alla fine la furiosa irruzione del Ku Klux Klan permette di far esplodere le tensioni implicite e allestire una sequenza “insopportabile”, ma non scalfisce il sofferto ottimismo della sostanza: la chiusura è un’ipotesi di melting pot, una famiglia mista con figlio meticcio, e non importa se il nero è reso afono dalle ombre della Storia. L’ultima parola è comunque amore.
Nota a margine. Il film mi ha ricordato il romanzo Ragazza nera ragazza bianca di Joyce Carol Oates (Black Girl / White Girl, 2006), imperniato su due giovani in un college americano negli anni Settanta (il tempo passa, poco cambia). Nell’incipit la scrittrice nasconde in una frase la questione razziale nella Storia: «Eravamo compagne di stanza, ma non ancora amiche».
