Biografico, Fantasy

DICKENS: L’UOMO CHE INVENTÒ IL NATALE

Titolo OriginaleThe Man Who Invented Christmas
Nazione Irlanda/ Canada
Anno Produzione2017
Durata104'
Tratto dal romanzo omonimo di Les Standiford
Fotografia

TRAMA

Dopo l’enorme successo di Oliver Twist Charles Dickens gode di una fama internazionale. La fredda accoglienza dei suoi libri successivi lo pone però di fronte ad una crisi finanziaria e personale, fin quando non emerge lentamente l’idea di un racconto natalizio.

RECENSIONI

Il Canto di Natale di Dickens torna periodicamente a proporsi al pubblico in una nuova veste. A teatro, in tv, a fumetti, ma soprattutto al cinema, già nel muto, come corto animato con Paperone e Topolino, come musical in casa Muppet, in 3D, come adattamento all’epoca contemporanea (S.O.S. fantasmi e non solo), persino nella versione di Radio Deejay, dei Looney Tunes, di Barbie. Il soggetto è dunque tra i più amati e saccheggiati di ogni tempo. Quest’anno arriva in una versione che mette al centro della storia Charles Dickens stesso, per raccontare la genesi dell’opera ma anche per legarne l’origine alla biografia ed all’esperienza diretta dello scrittore inglese. Una chiave di lettura nuova che deriva dal romanzo omonimo del 2008 e si fonda su una serie di tasselli storico-biografici riuniti con scrupolo ma certamente romanzati. Nel prologo troviamo Dickens in tour in America dopo l’accoglienza entusiastica tributata a Oliver Twist, acclamato da tutti come lo scrittore più venduto d’Inghilterra, lo Shakespeare del romanzo. Ben presto però anche il più grande successo sfuma se non rinnovato con nuovi exploit ed è proprio un Dickens in profonda crisi il protagonista di questa pellicola. Nel 1843, dopo i fiaschi di Barnaby Rudge e Martin Chuzzlewit, nonché del diario di viaggio America, lo scrittore è alle prese con l’incubo del foglio bianco. Con l’aggiunta dei consueti problemi economici che assillarono tanti grandi autori costringendoli a ritmi frenetici ed affanni da consegna: conti arretrati, moglie di nuovo incinta, debiti. L’impellenza di scrivere (ed indovinare i gusti del pubblico) martella per tutto il film il protagonista, che teme di aver esaurito idee ed immaginazione ed è stufo di scrivere forsennatamente per denaro. Dickens si fa così umanissimo nonostante la nota genialità.
Il film è al tempo stesso una biografia, un’opera sulla letteratura ed una diretta espressione della creatività e dello stile dickensiani. Da spettatori assistiamo alle vicende personali dell’uomo e a quelle dell’autore, al processo creativo ed al faticoso sviluppo delle idee. La tradizione delle favole con fantasmi paurosi a cui Il Canto di Natale si ispira viene portata casualmente in primo piano dai racconti fatti ai figli piccoli di Dickens dalla domestica irlandese, memore delle storie della vigilia di Natale. Gli altri spunti di questa come delle altre opere dello scrittore vengono dagli incontri fortuiti e dalla vita quotidiana. Girando per Londra, “palcoscenico del mondo” (mostrata con scorci che somigliano alle scene dei suoi romanzi), egli trae le sue ispirazioni. L’arido avaro del Canto è l’insieme di tutte le persone egoiste incontrate giorno per giorno e saccheggiate di frasi e manie: l’avversione per i giochi, per i bambini, per il Natale, la diffidenza, la misantropia. Scrooge prende forma divenendo un’apparizione davanti allo scrittore, che parla ed interagisce con lui. Anche Dickens viene visitato durante la notte dai fantasmi, i suoi, in un parallelo che unisce sempre più strettamente privato e creazione letteraria. Il suo è l’incubo d’infanzia del padre indebitato portato in prigione, della derisione da parte degli altri ragazzi per quel genitore imbarazzante. per questo forse mai perdonato. Anche nel presente il rapporto con quel padre sperperatore incallito di denaro, benché buono, è conflittuale.

Guardare il film è un po’ come seguire l’adattamento di un romanzo dickensiano: molti personaggi sembrano suoi, fortemente caratterizzati, talvolta sopra le righe; i toni sono quelli familiari, pervasi di ironia. La storia è di formazione, la genesi del capolavoro coincidendo con il percorso di maturazione del protagonista, la presa di coscienza dei suoi errori, l’assunzione personale dei canoni di comportamento descritti nel racconto. Pur non essendo uno Scrooge, anche lui ha commesso tante piccole meschinità - con il padre e la madre, con la moglie, con la tata. La difficoltà di trovare il finale giusto si risolve nella parabola di redenzione ed espiazione - del protagonista Scrooge come dell’autore stesso. Il racconto diventa anche un’analisi di coscienza, per Dickens come per tutti gli uomini, nelle loro bassezze e grandezze. Tutto ciò viene espresso, soprattutto verso la conclusione, con forse qualche isterismo di troppo, ma si sa che gli stessi personaggi dickensiani sono a volte inclini alla teatralità. Come tali vanno guardati i caratteri di questo film. Se si amano i suoi libri si può apprezzare anche la pellicola così pensata. La morale è chiara: “nessuno è inutile se può alleviare le sofferenze di qualcuno”. Dickens, con i suoi romanzi, lo ha fatto per tutta la vita. Come precisato dalle didascalie finali, dalla pubblicazione trionfale del Canto di Natale le donazioni aumentarono vertiginosamente, il Natale tornò in auge e cambiò spirito. Il film non è in grado di esercitare la stessa influenza contagiosa, né di commuovere profondamente come il Canto, ma rimane una visione piacevole e mai oltraggiosa. Il regista Nalluri - che qualche anno fa si era cimentato nella buona trasposizione del brillante romanzo Un giorno di gloria per Miss Pettigrew - si dimostra all’altezza della situazione, senza colpi di genio. Il romanziere viene interpretato dall’inglesissimo Dan Stevens, qui molto più espressivo che in Downton Abbey, appoggiato da solidissimi interpreti maturi come Christopher Plummer e Jonathan Pryce.