Drammatico, Sala

LOVELESS

Titolo OriginaleNelyubov
NazioneRussia/ Francia/ Germania/ Belgio
Anno Produzione2017
Durata127'
Montaggio

TRAMA

Zhenya e Boris hanno deciso di divorziare. Non si tratta però di una separazione pacifica, carica com’è di rancori, risentimenti e recriminazioni. Entrambi hanno già un nuovo partner con cui iniziare una nuova fase della loro vita. C’è però un ostacolo difficile da superare: il futuro di Alyosha, il loro figlio dodicenne, che nessuno dei due ha mai veramente amato. Il bambino un giorno scompare.

RECENSIONI

Una coppia divorzia e vende casa, disinteressandosi di ciò che prova il suo bambino: padre e madre non ci pensano proprio a contenderselo, anzi, ognuno ha trovato una nuova vita da vivere, un nuovo partner, e per questa creatura non sembra esserci posto nel percorso rinnovato che i due hanno deciso di intraprendere: è solo un ingombro, un fastidio di cui liberarsi. Figlio indesiderato di una madre che l’ha sempre considerato un errore e di un padre che lo ignora, per i genitori il bambino è solo un argomento di conversazione, l’oggetto di un discorso più o meno teso, mai una persona. Fin quando non scompare misteriosamente: da quel momento comincia ad esistere. La ricerca del figlio pone i protagonisti a confronto non solo con la loro genitorialità, ma con l’attualità delle loro scelte di vita, rinforzandole (la madre) o mettendole sottilmente in discussione (il padre).
Andrey Zvyagintsev è un regista che trovo difficilissimo maneggiare. Ammiro la purezza del suo talento visivo (la sua filmografia, da questo punto di vista, è senza macchie): l’incedere marziale delle raggelate immagini naturalistiche dell’incipit (la neve, i rami nudi, le acque livide del fiume descrivono anche un paesaggio umano: desolante, pietrificato); una porta si chiude e rivela, dietro di essa, la presenza del figlio piangente (brividi: il dramma è nelle cose, al di là dei conflitti e delle dispute); due amplessi di rara pregnanza per quello che riescono a raccontare - uno con una donna incinta (quanti ne avete visti al cinema?) -. Ma si affacciano dubbi quando rifletto sulla sostanza del discorso che l’autore porta avanti. Ho visto questo film per la prima volta a Cannes e, come era accaduto per Leviathan, sono uscito dalla sala decisamente contrariato da questo ennesimo campione di cinema tanto allegorico quanto esplicito nei significati, che mette all’angolo lo spettatore, impedendogli di elaborare quello che sta guardando, fornendogli chiavi di lettura a ogni piè sospinto: a cominciare dal titolo che sintetizza a dovere quello che c’è da sapere sulla storia che stiamo seguendo. E la detection che è l’ennesimo pretesto per dotarci di qualche altro strumento per l’unica interpretazione che ci viene permessa: quella rigorosamente autentica. E l’incontro con la madre della protagonista che è il modo prescelto per squadernare le origini di questa indifferenza disumana, di questa freddezza glaciale, di un’aridità che si perpetua di generazione in generazione.

Lo svolgimento della narrazione è punteggiato da parentesi continue e pedanti note a margine (il padre che si libera del nuovo pupo che lo sta infastidendo buttandolo di peso nel box). Che il discorso sia riferito a un Paese intero, dopo i pesanti sottintesi, ce lo dicono con chiarezza quel flash sul dramma in Ucraina (dal telegiornale) e l’immagine finale della madre protagonista: sul balcone dello splendido appartamento in cui è andata a vivere col nuovo compagno (a dire del gradino della scala sociale che lei, di origini campagnole, è riuscita a raggiungere) la donna corre verso il nulla sul suo tapis roulant, indossando una tuta con la scritta RUSSIA a caratteri cubitali. Casomai ci fossero miopi in sala.
Come se non bastasse, alla tendenza del regista ad esaurire ogni spazio di analisi, Lovelessaggiunge un moralismo peloso che suona esasperante: i personaggi, costantemente ipnotizzati davanti a uno smartphone, si fanno selfie, fotografano il cibo che mangiano, usano i social e Skype, cercano risposte su Google, come se il narcisismo e la vacuità nascessero oggi e fossero figli delle possibilità tecnologiche che il tempo attuale ci offre.

Sei mesi dopo quella prima visione, riguardare il film, conoscendolo in anticipo, mi ha reso meno pesante la pervicacia di un discorso, che, ai miei occhi, ha comunque - nella sua maniacalità, nella dimostratività del caso estremo che si sceglie di raccontare, nello scientifico saturare qualsiasi spazio di elaborazione personale - un che di ammirevole: quell’ansia di controllo sa di perfezionismo un po' paranoico. Questione di poetica, mi sono detto: non la mia tazza di tè, d’accordo, ma se lo sforzo del regista di trapanare la coltre di indifferenza che ci circonda e di far arrivare forte e chiaro il suo benedetto messaggio/ pistolotto sull’amore tradito e l’infanzia perduta (che è quella di un popolo abbandonato dalla Nazione-madre - non a caso per ricercare Alyosha, stante l’assenza dello Stato, ci si affida a un’associazione di volontariato -), sul disorientamento globale (l’apocalisse è vicina, si perita di dirci il padre del bambino - ché a noi sta parlando, non al suo collega -) e sull’immaturità di una società alle prese con una svolta moderna, si converte in una filippica sbilanciata, ciò non mette in discussione i meriti formali(stici) dell’opera. In questi ultimi mesi, infatti, sono tornato spesso col pensiero a Loveless, ne ho parlato tanto con amici, ché quelle che mi erano rimaste in mente erano le cose migliori, le stesse che mi hanno indotto a riguardarlo.

Allora di questo saggio di programmatico pessimismo cosmico, che ci dice del deserto morale di una Russia egoista e senza amore(un’umanità ritratta spesso dietro un vetro, surgelata), oramai consacrata all’individualismo di stampo capitalista, di strisciante fascismo (l’impresa in cui lavora Boris che non tollera divorzi e pretende famiglie unite e religiose), anche stavolta mi porto a casa il supremo linguaggio visivo col quale viene espresso, l’altissimo stile di una regia che sfodera soluzioni di rara intensità espressiva: i ragionati movimenti di macchina (la camera, fissa sui cancelli della scuola, si muove solo quando individua, nella folla dei ragazzini, un punto rosso: il bambino al centro della vicenda); il modo in cui vengono esplorati i volti dei protagonisti; la suggestiva resa degli ambienti (tutta la sequenza dell’edificio abbandonato), disegnati dalla chirurgica fotografia di Mikhail Krichman; la solenne gestione dei tempi che distilla la tensione e impedisce la deriva grottesca; quei manifesti col volto del bimbo: ignorate, rassegnate macchie nel paesaggio; il tono laconico di una narrazione che ama - in contrasto con la sua lampante decrittazione simbolica - le omissioni: la scena della morgue che gela il sangue e spalanca sullo spettatore la porta del dubbio, quel soffermarsi (apparentemente incongruo e che invece suggerisce possibilità) sulla figura della maestra o quel tornare, nel finale, sui luoghi visitati all’inizio, a quell’albero sul fiume che ancora reca la traccia del passaggio di Alyosha, sequenza che forse sottintende che il bambino è lì che ha fatto ritorno (era un suo luogo-rifugio) ed è lì che ha cercato o trovato la morte.
Il come, e non il cosa, insomma.