TRAMA
Jean, Juliette, e Jérémie, tre fratelli francesi, alla morte del padre ereditano l’azienda vinicola di famiglia, la casa, la terra, i vigneti in Borgogna. Vendere tutto sarebbe estremamente più retributivo che continuare a produrre vino. Ma il legame con le radici e con la tradizione è forte; anche per Jean che ormai ha una famiglia in Australia, è appena tornato a casa, ma non sa effettivamente quale luogo sia casa per lui.
RECENSIONI
Per sfuggire ai giorni sempre uguali e alle liti con il padre, Jean (Pio Marmaï) decide di girare il mondo. Non lo gira poi tutto, ma arriva almeno dall’altra parte, in Australia e, tornato in Borgogna, dopo un decennio, non trova proprio la fin du monde, ma quantomeno la fine di una generazione, un lutto determinante, un’eredità difficile da amministrare e un conflitto di appartenenza. Ci vuole coraggio per viaggiare, dice una ragazza bretone di Finistére, finis terrae naturalmente, evocando di nuovo i confini del globo e la necessità di superarli: a Klapisch sono sempre piaciuti gli intrecci linguistici e internazionali, ci ha costruito su un Appartamento Spagnolo diventato poi, tra problemi sentimentali e lavorativi, una trilogia che approdava a New York passando per la Russia. Un continuo giro del mondo, di vite, case e conflitti che si risolvono prima di tutto nei toni accesi e contrastati della fotografia che offre una galleria di volti belli o sempre almeno gradevoli, come gli ambienti e i paesaggi, in questo caso a pieno titolo (letteralmente, per quello italiano del film) riassumibili nel classico e intramontabile “evocativi”. Lontano dalle città, protagoniste dei lavori precedenti, stavolta siamo infatti immersi in una natura mutevole eppure costante, o viceversa, in base a ciò che si desidera o da cui si fugge: cerchiamo la stabilità o il cambiamento? La vita ciclica di un vigneto, che tuttavia non dura più di un secolo, ci rassicura o ci annoia? Sicuramente ci somiglia. Anche in Australia ci sono le stagioni, sono solo meno differenti l’una rispetto all’altra, dice Jean, che ha un bimbo australiano da una moglie spagnola (Alicia, María Valverde, la fu Melissa P. di Luca Guadagnino), ma “testardo come un mulo”, gli parla francese, nonostante le sue proteste. È una questione di radici e di legami, “Ce qui nous lie” è il titolo originale del film, “è quello che ci lega”, ossia la terra, le origini, il vino. Jean è fuggito da un vigneto per trovarne un altro nell’emisfero opposto, è fuggito dal vino, dice, ma torna sempre col naso in un bicchiere, a discernere note più o meno fruttate, a precedere una degustazione in cui, per tradizione di famiglia, non si sputa. E in effetti, in questo film in cui si toccano corde intime e gli stati d’animo sono sempre oscillanti, non si sprofonda mai nel dramma né lo si approfondisce, l’allegria dura quanto una sbornia e la serenità è anch’essa a ritmo stagionale, la parte migliore è quella tattile, olfattiva, gustativa, quella che si sofferma su acini e pampini, su una vendemmia che si trasforma in un coreutico lancio delle uve, sulle operazioni di diraspatura e pigiatura, che passa per i tini e finisce in un calice. Nonostante le facili metafore che associano il vino all’amore, certe scontatezze che sarebbero retoriche anche non pronunciate, invece si fanno diario di vita, nel film la natura è vivida, il paesaggio autentico, il vino sembra a tratti frizzare nell’aria e i francesi hanno doti recitative impareggiabili quando si tratta di portare in scena la spontaneità, l’intimità, un certo senso del reale non edulcorato, anche quando lo è, specialmente in una confezione così “in chiave alta” –ancora, a proposito di “naturalezza”, metaforicamente e non, le proteste contro l’uso del cimoxanil nel vigneto dividono a metà natura e industria, locus amoenus e veleno, tradizione e modernità in cui, stavolta, è la seconda a progredire in senso ecologico e la prima ad essere respinta, strizzando l’occhio a nuovi metodi, facendo culminare il legame e insieme la protesta verso i padri con la scelta di un vino più complesso e al contempo più “naturale”-.
Le musiche onnipresenti dei Kraked Unit, collaboratori storici di Klapisch, sono accompagnamento e sottolineatura di scene, atmosfere e situazioni, di un descrittivismo a tratti invasivo, per cui la natura osservata, evocata e ritratta non ha un respiro che non sia musicale e si sente la mancanza dei suoi suoni e dei suoi silenzi. Ma si comprende come tutto sia inserito in un tipo di narrazione organicamente esplicita, che cerca la levità, non semina dubbi, non sedimenta i turbamenti che pure attraversa e non sedimenta in generale. Se non una certa voglia di un viaggio in Borgogna.