TRAMA
Napoli. In seguito ad una sparatoria in cui rimane ferito, il boss Don Vincenzo Strozzalone decide, su consiglio della moglie, di mettere in scena la propria morte al fine di ricominciare una nuova vita. Il piano viene però messo a repentaglio dal fedele Ciro, il quale si rifiuta di eliminare Fatima (un’infermiera che aveva visto Don Vincenzo vivo e vegeto sul letto d’ospedale), suo primo e unico amore, finalmente ritrovato.
RECENSIONI
Sarebbe davvero un peccato fermarsi alla parodia. È vero, in Ammore e malavita si ride, si ride tanto, e si ride anche del trattamento gigione e parodistico di alcuni cliché tipici del genere. A ben guardare però, è solo il punto di partenza. Il nuovo dei Manetti Bros. infatti è prima di tutto un film d’amore. C’è l’amore ritrovato che lega Fatima a Ciro, l’amore criminale di Donna Maria e Don Vincenzo, e soprattutto c’è l’amore trascinante dei due fratelli romani per il cinema di genere. “Il genere: una sensibilità. Non soltanto un repertorio fisso di situazioni e soluzioni, ma, più ampiamente, un modo di vedere e presentare le vicende, una maniera di “sentire” l’esistenza”: così scriveva Alessandro Baratti nella recensione di Piano 17, secondo lungometraggio dei Bros. Ora, l’abilità dei Manetti nel muoversi all’interno dei generi non è certo una novità: si tratta del primo argomento che viene sempre sottolineato ad ogni loro uscita, al cinema o in televisione, perché è lì, innegabile, davanti agli occhi di tutti. Nel suo porre, fin dal titolo, l’amore come primo termine assoluto e perno irremovibile attorno al quale far muovere il racconto, Ammore e malavita è però un film che ben si presta a mettere in evidenza anche il modo in cui i due fratelli affrontano il genere. La definizione di Baratti, in questo contesto, vale più che mai: alla larga da formule preconfezionate, alla larga dalla riproposizione rigorosa di situazioni narrative o visive, alla larga da soluzioni consolidate da dover necessariamente applicare per sancire l’appartenenza di un film a questo o quel genere. Prima di tutto ciò, il genere è “una sensibilità”: ogni film di genere, quand’è veramente tale, è soprattutto un atto d’amore.
In Ammore e malavita c’è però anche una forma d’amore che non trapelava nel precedente Song’e Napule (ancora un film che nella figura del cantante Lollo Love professava il dominio della passione sulla ragione e sull’esperienza), che del primo è sia il seguito spirituale che un ideale controcampo: è l’amore per l’America, per il prodotto e per la forma hollywoodiani, abilmente diluito in una miscela più ampia che finisce per celebrare tutto ciò che concerne il cinema (e non solo) popolare. Proprio come i turisti americani che all’inizio del film arrivano a Napoli e si esaltano per le Vele di Scampia, anche i Manetti portano all’interno delle rovine di un genere tipicamente provinciale (la sceneggiata napoletana), suggestioni e ispirazioni che non potrebbero essere più aperte, perché figlie di quella produzione statunitense che ha ormai da tempo immemore colonizzato l’immaginario occidentale (e sicuramente ispirato i due fratelli lungo tutta la loro formazione). È il cinema che piega il racconto, è il prodotto popolare (principalmente anglo-americano, ma non solo) che modella il mondo messo in scena dai Manetti. Il punto di vista dei due registi sulla realtà pare allora essere quello della cinefila Donna Maria, femme fatale manipolatrice e abilissima interprete (“Signora, siete proprio un’attrice!”), capace di citare a memoria i film che ama e che per il suo piano criminale si ispira appunto alle peripezie di James Bond. In Ammore e malavita insomma, c’è davvero di tutto: dal musical alla Grease (puntualmente citato) al noir, dal bullet time canonizzato da Matrix a John Woo, fino ad arrivare alle esplicite strizzate d’occhio a Bruce Lee, alle avventure di 007 e a Panic Room (“Il titolo di un famoso film americano”). E ancora, ci sono echi dal mondo videoludico più recente (la lama di Assassin’s Creed, gli infrarossi in stile Splinter Cell), e colpi di scena costruiti attorno all’uso di effetti speciali (ma con sangue “vero”, quasi a voler sottolineare ulteriormente, in questo scarto, la passione che guida il racconto); senza poi contare tutta l’oggettistica (orologi con il volto di Johnny Depp, modellini della DeLorean di Ritorno al Futuro o della celebre Aston Martin dell’agente segreto inglese) che domina gli spazi in cui si sviluppano le vicende. Tutto questo coesiste miracolosamente perché non si tratta di un sovraccarico di citazioni e riferimenti volti ad approfondire un particolare aspetto della vicenda o a far emergere, attraverso il confronto, ulteriori significati nascosti: sono semplici atti d’amore, nella loro forma più pura e giocosa. Ben venga allora un cinema così libero, così sinceramente innamorato della materia che tratta, un cinema che, per riprendere le parole del Pino Dinamite di Song’e Napule, vede “le cose più col cuore che con la testa”.
In questo senso allora sì che va bene pure la parodia, sempre la più profonda e sincera delle dichiarazioni d’amore, d’“ammore overo”, quello che “nasce ‘na vota e nun more maje”: What a feeling.
