TRAMA
Attraverso una serie di monologhi Cate Blanchett esplora le dichiarazioni artistiche più innovatrici del XX secolo per comprendere la loro rilevanza sociopolitica.
RECENSIONI
Aveva visto bene Peter Jackson nel scegliere Cate Blanchett per la parte dell'eburnea e altera Galadriel, intravedendo già il suo coté divistico, fattore che da lì a poco avrebbe contribuito a imporla nell'immaginario spettatoriale come uno dei pochi personaggi iconici del cinema d'oggi. Le parole che La Dama dei Boschi intima a Frodo Baggins («Ed io [...] sarò [...] bella e terribile come la mattina e la notte! Splendida [...]! Temuta come i fulmini e la tempesta! [...] Tutti mi ameranno, disperandosi!») sembrano dire, per iperbole, il rispetto e l'ammirazione reverenziale di cui l'attrice gode, sia tra il pubblico che fra gli addetti ai lavori, come ad esempio il videoartista Julian Rosefeldt che l'ha voluta protagonista assoluta del suo progetto Manifetso.
Manifesto nasce una prima volta nel 2015 come videoinstallazione: un mosaico di 13 schermi dove ogni tassello rimandava a un diverso scenario, e ogni scenario a un diverso movimento (politico; artistico; letterario), celebrato attraverso le parole dei vari manifesti programmatici, proposte, in forma di monologo, da altrettanti personaggi, recitati però da un'unica interprete, Cate Blanchett. Rosefeldt ora ha ripensato il progetto e ha fatto confluire le originarire tracce multicanale in un unico dispostivo filmico. Il regista/videoartista, citando Claes Oldenburg, si fa portavoce di «un’arte [...] che fa qualcosa invece che rimanere seduta sul proprio culo in un museo», e le trasformazioni che ha compiuto su Manifesto ne sono l'evidente dimostrazione. Riconosciutogli questo bisogna però dire che il risultato cinematografico finisce per non convincere.
Quello che nella versione installativa doveva essere l'elemento cardine del progetto e cioè lo spettatore, qui non è più messo nella condizione di essere l'artefice di mille e un intreccio. Il visitatore entrava in un’enorme sala scura, riempita di schermi. tutti contemporaneamente accesi. Le voci si mescolavano così come le immagini: era lui a dover tracciare, proprio fisicamente, attraverso i suoi spostamenti, dei possibili percorsi. Una situazione, quella qui accennata (che ricorda certe visoni greenawayane: «nei miei film si deve poter passeggiare come dentro un edificio [...]; io passeggio, io scelgo i punti di visti, però sono sempre all'interno di una visione di un autore»), dove le posizioni di regista e destinatario-spettatore si annullavano vicendevolmente in un meccanismo continuo e inglobante. Ripresentato in chiave filmica, Manifesto, cambia completamente regime visivo: viene meno lo scambio “circolatorio” e torna a riproporsi classica condizione spettatoriale, vale a dire che il discorso non “circola” per direzionarsi in maniera immodificabile da un punto all’altro. Venendo meno il suo coinvolgimento, lo spettatore subisce questo mash-up di testi, dove le parole si annullano perdendo di senso.
A imporsi su tutto è l'interpretazione di Cate Blanchett, impegnata in una performance che assume i contorni di un saggio (applicato) sulla figura dell'attore: soggetto nomade, dall'identità fluida e mutevole, che subisce il polimorfismo non tanto come condanna quanto come fatale e irresistibile attrazione. Il problema, per ricollegarci con quanto scritto in apertura, è che Rosefeldt dà l'impressione di rimanere eccessivamente soggiogato dal fascino e dal carisma della sua protagonista, non riuscendo mai del tutto a privarla della propria immagine originaria (come invece è stato capace di fare Carax con Denis Lavant in Holy Motors, facendo del personaggio di Oscar un ombrofago che si libera della propria ombra divorandola, divenendo pellicola neutra, soggetto capace di realizzarsi soltanto perdendosi), rendendo quindi meno efficace il gioco schizofrenico dei tanti volti assunti.