Horror, Sala

LEATHERFACE

Titolo OriginaleLeatherface
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Genere
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Rinchiuso da dieci anni nella Gorman House, un istituto tra l’asilo psichiatrico e il riformatorio, Jackson/Jed Sawyer viene coinvolto in una rivolta scatenata a sua insaputa dalla madre Verna, recatasi nell’istituto a trovarlo e ostacolata per l’ennesima volta da direttore, il sadico dottor Lang. Nel tentativo di proteggere Lizzy, una giovane e zelante infermiera che ha appena preso servizio nella Gorman House, Jackson si trova costretto a evadere dall’istituto insieme all’infermiera presa in ostaggio e tre giovani internati: lo psicopatico Ike, la sua incontenibile compagna Clarice e il gigantesco minorato Bud. Senza un soldo e tallonati dalla polizia capitanata dal crudele Ranger Hartman, inizia così una fuga per le strade e le campagne del Texas. Riusciranno i nostri eroi a farla franca?

RECENSIONI

Distribuito prevalentemente in Video On Demand dalla terza settimana di ottobre, Leatherface è il quarto lungometraggio cinematografico di Julien Maury e Alexandre Bustillo, già autori della macelleria ostetrica di À l'intérieur (2007), di Livide (2011), rivisitazione in chiave fantastica del romanzo Malataverne (1960) di Bernard Clavel e di Aux yeux des vivants (2014). In Italia, diversamente dalla maggioranza degli altri paesi europei (persino in Francia è uscito direttamente in VOD), Leatherface ha beneficiato di una distribuzione in sala, circostanza che ha profondamente soddisfatto i due cineasti, da sempre grandi estimatori del cinema italiano di genere e non solo (in una conversazione con Julien Maury ho potuto apprezzare tutta la sua ammirazione tanto per i film di Dario Argento quanto per il Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma, con ogni probabilità la pellicola che ha segnato in modo più incisivo e decisivo la sensibilità del cinema francese più radicalmente dirompente degli ultimi venti anni).

Ennesimo capitolo della saga scaturita dalla leggendaria pellicola Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 1974) di Tobe Hooper, Leatherface si presenta dichiaratamente come un prequel che intende mostrare le origini del personaggio omonimo (in italiano "Faccia di Cuoio"), senza tuttavia raccontare tutti gli episodi che hanno trasformato Jedidiah/Jed Sawyer in quel fenomeno di furia tranciante che compare in The Texas Chainsaw Massacre. È un dato di fatto incontestabile che Maury e Bustillo conoscano alla perfezione le regole dell'horror e adorino il cinema di Hooper (accreditato nei titoli di testa come Executive Producer per contratto e scomparso il 26 agosto, esattamente il giorno dopo l'anteprima mondiale di Leatherface al London FrightFest): alcuni anni fa hanno addirittura tentato di allestire una sorta di prequel del suo misconosciuto Il tunnel dell'orrore (The Funhouse, 1981). Ma, anziché farsi schiacciare dalla deferenza nei confronti dell'archetipo hooperiano, dalla logica industriale del franchise o dalle esigenze della casa di produzione statunitense (la Millennium Films, costola della Nu Image), i due cineasti francesi non trascurano la loro idea di messa in scena e, girando in Bulgaria negli ex studios di Sofia della Boyana Film, difendono strenuamente la loro identità espressiva europea.

Sebbene Leatherface sia concepito come un prequel divertente e avvincente che possa essere visto senza conoscere necessariamente l'intera saga, Maury e Bustillo hanno chiesto allo sceneggiatore Seth M. Sherwood di riscrivere quasi tutte le scene di omicidio per renderle più consone alla loro sensibilità (si faccia caso alla varietà dei modi in cui vengono uccisi uomini e donne del personale della Gorman House durante la ribellione). Sull'impianto da road movie fornito dallo script di Sherwood, i due cineasti francesi, per la prima volta alle prese con una sceneggiatura non scritta da loro, introducono varianti e accorgimenti stilistici atti a integrare la materia narrativa nel loro universo estetico. Lungi dall'irrorare di gore l'intero film, disegnano un crescendo di violenza secca e tranciante che punteggia il racconto senza abituare lo spettatore al cruore permanente. E, benché costretti a rinunciare a una prima versione del film meno serrata e più aperta alle suggestioni ambientali, sfruttano la "scansione a tappe" per produrre sia un'evoluzione progressiva dei singoli personaggi, giocando sulla componente "whodunit" (chi diventerà Leatherface alla fine?), sia una corrente empatica tra lo spettatore e i cinque fuggiaschi (Ike e Clarice + Bud + Jackson e Lizzy). Modello filmico dichiarato: La casa del diavolo (The Devil's Rejects, 2005) di Rob Zombie, pellicola esemplare nella formazione di uno spettatore che, nonostante la furibonda illegalità, parteggia sfegatatamente per i membri della famiglia Firefly. Provocare l'identificazione con personaggi sgradevoli e fuorilegge, ecco la vera sfida lanciata da Maury e Bustillo sulle orme "peckinpahiane" di Zombie.

Si tratta di capovolgere i valori socialmente consolidati: forze dell'ordine e personale medico sono dipinti come autorità corrotte, vendicative e sterminatrici (i trattamenti elettroconvulsivi del dottor Lang, la rabbiosa esecuzione di Clarice compiuta dal Ranger Hartman e la raffica di colpi esplosi contro la casa mobile nel bosco in cui i poliziotti credono nascondersi gli evasi), mentre i fuggitivi, soprattutto Jackson e Bud, vengono gradualmente caratterizzati in senso inverso, arricchendosi di aspetti positivi (le premure di Jackson nei confronti di Lizzy, l'ingenuità ferita di Bud, l'affetto che lega i due personaggi spingendosi fino al sacrificio). Persino Verna Sawyer (Lili Taylor), figura di madre possessiva, indomita e spietata, si carica di sfumature tenacemente affettuose (dall'indulgenza del prologo alla sollecitudine con cui cura il volto sfigurato di Jed, passando per l'impetuosità della sua visita nella Gorman House). Ed è proprio questo sentimento materno esclusivo e implacabile a tracciare una linea di continuità tra Leatherface e À l'intérieur: come Béatrice Dalle nel film del 2007, Lili Taylor è una madre alla quale è stato strappato un figlio che intende riprendersi a ogni costo, indipendentemente dalla liceità dei mezzi impiegati. Si indovina assai facilmente, al di là dell'evidente e comprensibile orgoglio di essere annoverati nella saga hooperiana, uno dei motivi profondi per cui Maury e Bustillo hanno accettato di girare questo prequel dopo svariati progetti simili non andati in porto (dal remake di Hellraiser a quello di Nightmare, passando per Venerdì 13 e Halloween II).

Ma l'autentico valore aggiunto di Leatherface risiede nella sottigliezza degli accorgimenti di messa in scena adottati da Bustillo e Maury. Anziché calarsi passivamente e prevedibilmente nel solco sporco, organico e quasi documentaristico dell'originale, i due cineasti francesi prediligono invece un impianto visivo contraddistinto da accenti naturalistici esteticamente morbidi (luce naturale, sole radente), utilizzando addirittura dei vecchi obiettivi russi degli anni '60 per portare l'immagine digitale pulita e levigata a una tessitura più vicina a quella filmata con la pellicola. Un'inversione dei valori prestabiliti che interessa anche l'arrangiamento dinamico del film: se i personaggi convenzionalmente rassicuranti (personale medico, forze dell'ordine) sono inizialmente ripresi con inquadrature ordinate e movimenti di macchina calmi e posati come carrelli e dolly, successivamente vengono destabilizzati da riprese con camera a spalla, perdendo gradualmente il loro ruolo di punti di riferimento ottico e psicologico.

Al drappello di evasi viene invece riservato il trattamento diametralmente opposto: ripreso prevalentemente con la camera a mano fin dall'inizio, il quintetto si smarca gradatamente da questo regime ottico (si noti la variazione tra la frenetica ribellione nella Gorman House e la tensione raffrenata della notte trascorsa nella casa mobile) fino a raggiungere, con l'arrivo nella Sawyer Farm, momenti di vera e propria distensione visiva (il lento carrello all'indietro su Verna che abbraccia teneramente Jed dopo averlo ricucito). Persino il lavoro sulla materia cromatica risponde al proposito di prendere in contropiede gli spettatori e i fan della saga: rovesciando il rapporto convenzionale tra colori rassicuranti e colori ansiogeni, Leatherface si dirige speditamente verso un universo dai colori caldi. Ancora una volta è la Sawyer Farm, con la sua sinistra e accogliente visceralità, a porsi come origine e punto di arrivo di questo "road movie right straight to hell" (Alexandre Bustillo): "La casa dei Sawyer l'abbiamo voluta molto calda, come un ventre materno, come se fosse un ritorno alle origini di Jed, che torna per rinascere come Leatherface" (Julien Maury).