CARTOLINA DA CANNES (19 MAGGIO)

Van Sant, Haynes, Maiwenn, Brizé, Donzelli…Tra fragorosi tonfi (Gus Van Sant), operazioni perfettamente confezionate e perfettamente prevedibili (Todd Haynes, che come suo solito imbalsama egregiamente le forme del melodramma hollywoodiano illudendosi che basti ampliarne il raggio all’amore omosessuale per aggiungervi qualcosa), e francesi variamente inguardabili (Maiwenn, Brizé, Donzelli…), si trascina stancamente il concorso principale, in attesa dei pezzi da novanta, previsti come spesso accade nella seconda metà del festival._x000D_
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LOUDER THAN BOMBS
Joachim TrierCi si chiede, ad esempio, che ci faccia in concorso Louder than Bombs di Joachim Trier. In America devono avere visto nel regista norvegese una sorta di Muccino: gli hanno dato in mano una manciata di attori di grido (Jesse Eisenberg, Isabelle Huppert) ma non troppo (Gabriel Byrne), e hanno puntato tutto sulla sua “europea” incapacità di (o assenza di interesse verso il) costruire un'azione cinematografica degna di questo nome, travestita da benevolo, compiacente, costante indugio sui personaggi. È questo, in effetti, che viene richiesto dall'innesco narrativo: la morte di una celebrata fotografa giramondo in un banalissimo incidente stradale lascia il marito, il figlio minore (un adolescente disadattato) e quello maggiore (neo-papà e neo-professore meno solido di quanto sembri) galleggiare nelle insicurezze, nei ripensamenti, negli incerti bilanci e nei confronti reciproci, come da sundanciana tradizione. In questa zona grigia, Trier sguazza dando fondo senza ritegno a flashback, immagini mentali per entrare nella testa dell'altrimenti impenetrabile figlio adolescente, cambi di punti di vista e quant'altro. Nelle sue mani, rispetto al fine dell'estrinsecazione dei caratteri ogni mezzo è giusto, ma essa diventa a propria volta fine a se stessa e ben presto comincia a girare piuttosto penosamente a vuoto, senza smettere mai.
_x000D_VOTO: 5.5
UNIMACHI DIARY
Hirokazu Kore-EdaNon convince, purtroppo, nemmeno Unimachi Diary di Hirokazu Kore-Eda. Dopo lo stupendo Father and Son, il partito preso di orizzontalità del cineasta giapponese non trova nessun contrappeso che lo giustifichi. In quel film, il penultimo, l'appianamento totale di ogni scintilla drammatica e la radicale de-gerarchizzazione degli elementi costituenti la materia narrativa, ottenuti soprattutto grazie a un eccellente livellamento distributivo dei valori grafici e cinetici all'interno del campo lungo, si rivelavano superbamente funzionali rispetto ai meccanismi e gli schemi della commedia (come quello ultraclassico dei figli scambiati tra famiglie di diversa estrazione sociale); in quest'ultima opera, non sono funzionali che all'esposizione dei personaggi femminili: le tre figlie di un uomo morto da poco, che decidono di prendere in casa con sé la figlia da lui avuta da un'altra donna. Essi però sono troppo esili, e se ci si aggrappa solo a loro si finisce per scivolare giù: va bene, va benissimo sperimentare in un film la più totale assenza di conflitti, ma bisogna trovare un controbilanciamento – che qui, ahinoi, manca.
_x000D_VOTO: 6.5
CHAUTHI KOOT
Gurvinder SinghLe sezioni laterali, in compenso, sono piuttosto in salute. Spicca, in Un Certain Regard, Chauthi Koot (“La quarta direzione”) dell'indiano Gurvinder Singh. Sullo sfondo degli scontri tra l'esercito regolare e un gruppo armato di ribelli Sikh negli anni '80, Singh si concentra sui loro riverberi presso la popolazione civile, e si serve della dilazione reticente nell'esporre gli eventi, del fuori campo, di una struttura brillantemente arzigogolata e di un mood di inquieta sospensione per costruire un magistrale apologo sulla Storia come allucinazione, sull'angoscia del non poterne stare né dentro né fuori.
_x000D_VOTO: 8.5
MU – ROE – HAN
Oh Seung-UkColpisce anche Mu-roe-han (The Shameless) di Oh Seung-Uk. Parte come un poliziesco tradizionale, con un detective che si finge criminale per approcciare la donna di un assassino latitante – e tradizionale rimane, ma non prima di slargarsi fino ad accogliere vistose chiazze melodrammatiche. E lo fa con una perizia tutt'altro che indegna di, poniamo, i giallorosa del primo Blake Edwards: con il crescente serpeggiare, tra i due personaggi principali sempre più attratti l'un l'altro, di una cupa malinconia, le pause passano da essere mero supporto dell'azione a centro principale del film, a propria volta puntellate da scene d'azione (di fattura peraltro notevole) sempre più rade ed episodiche. Ci vuole molta raffinatezza per portare avanti un film in questa maniera – e Oh (che ha un cospicuo passato da sceneggiatore) ne ha da vendere.
_x000D_VOTO: 8
… e Miguel GomesE poi c’è Miguel Gomes. Il suo splendido Le mille e una notte, trilogia che racconta la crisi in Portogallo (e non solo) passando di digressione in digressione sulla scia della leggendaria strategia di Scheherazade, si sta snodando lungo tutta la Quinzaine des Réalisateurs, scombussolandola profondamente. Se ne riparlerà al termine delle sue più di sei ore, quando anche il terzo ed ultimo episodio sarà stato svelato.