CARTOLINA DA CANNES (19 MAGGIO)

FoxcatcherUna storia vera, immancabilmente elevata (o elevabile) a più ampia parabola degli ultimi decenni di America. 1987. Due fratelli, campioni olimpici di lotta, vengono contattati dal ricchissimo discendente della dinastia dei DuPont per mettere in piedi un team imbattibile. Il complessato e solitario Mark abbocca subito (fondamentalmente perché l’ultranazionalista demagogo DuPont è complessato come e più di lui); Dave invece nicchia: è una “persona normale”, con una famiglia bella e unita intorno. Dopo un paio d’ore di livido dramma (sì: decisamente più dramma che tragedia) in cui si addensano le turbe psichiche dei personaggi, la situazione degenera e il temporale prevedibilmente scoppia.
_x000D_Più che di districare la matassa drammatica, Miller si preoccupa di imbastire un’atmosfera torbida e vagamente cupa (anche attraverso la direzione degli attori – peraltro di tutto rispetto). Si preoccupa, ad esempio, di mostrare Mark per cinque secondi in aereo con la faccia angustiata, giusto per ribadire quale sia il tono che si è scelto di privilegiare. Il risultato è che il sottotesto politico non viene fuori con sufficiente lucidità. È piuttosto evidente che questa storiaccia di cinque lustri fa ha molto da dire sull’odierna “minaccia populista”, sul circolo vizioso che stringe in un medesimo corpo a corpo le onnipotenti lobby a stelle e strisce e il sostrato popolare di cui a vario titolo non possono fare a meno. Un circolo vizioso in cui amore e odio, fascinazione e ripulsa, non riescono a staccarsi.
_x000D_Questo abbraccio vanamente agonistico, Miller si limita solo a constatarlo con costernazione. Ma non si spinge oltre. Rimane un po’ prigioniero di un soggetto troppo fascinosamente complesso. Capisce bene che non conviene demonizzare DuPont (non è il sulfureo separatore di Caino e Abele: i due fratelli sono lontani già all’inizio), pena la fascinazione di ritorno. Quest’ultima, però, è lontana dallo svanire, perché i tentativi di ridicolizzarlo sono troppo timidi, e troppo legati a un’ansia di  psicologizzare che più in generale, purtroppo, appesantisce un po’ il film (vedi la scena della madre in carrozzina che fa visita agli allenamenti, e davanti a cui DuPont si sente in dovere di fingere di essere il capo). Non riesce, inoltre, a resistere alla (indiretta) glorificazione della “gente perbene”, la cui integrità rimane indiscussa: rimane insomma implicitamente vittima del populismo che tenta di decostruire. E perché inizia sposando il punto di vista di Mark ma perdendolo poi via via lungo la strada?
_x000D_Intendiamoci: Miller fa un lavoro robusto e accattivante, grazie al quale le redini di questo dramma gli rimangono sostanzialmente in mano. Peccato, però, che si tenga al di qua delle ambizioni implicite in un progetto del genere.