
Touch of SinCi ha pensato bene, Jia Zhang-Ke, prima di cimentarsi nuovamente con il film di finzione, dopo il Leone d’Oro di sette anni fa (Still Life). Ne è valsa la pena: Touch of Sin dimostra un’impressionante maturità estetica, che traspare innanzitutto dalla tutt’altro che banale costruzione di questo film a episodi.
_x000D_Comincia con un prologo, una rapina finita nel sangue. Le carte vengono scoperte: trattasi di una lunga (due ore e mezza) pellicola sul dilagare della violenza nella nuova Cina. Dopodiché il primo episodio, che invece è un altro prologo: uno spaccato di ordinaria corruzione nell’entroterra rurale, osteggiato da un improvvisato, benintenzionato e sanguinario giustiziere. Altre carte si aggiungono a quelle già sul tavolo: ora è chiaro, non si tratta, nel e col film, di “raddrizzare torti”.
_x000D_La stortura, infatti, è ontologica, consustanziale con la nostra condizione: ecco perché il peccato originale del titolo, e quelle mele rosse che fanno da insistente rima interna lungo tutto il film. La stortura è un dato oggettivo, della realtà e non degli uomini né delle loro azioni o intenzioni. La tendenza a muovere lungamente e avvolgentemente la macchina da presa (già nella maggior parte delle opere precedenti di Jia), serve qui a intrecciare nella realtà stessa un tessuto in cui la continuità si mescola alla discontinuità secondo schemi rigorosamente irregolari. L’irrompere spesso imprevisto della violenza (seguita dall’obbiettivo con chirurgica impassibilità) è appunto lo squarcio di cui il tessuto che chiamiamo “realtà” non saprebbe né potrebbe fare a meno. Non potendo essere questione di torti da raddrizzare (né dunque di linee narrative da tracciare), non ci rimane che la catarsi di fronte a questo dato di fatto che ci coinvolge tutti a prescindere; la gestione di tale aspetto, sulla carta banale, è tra le cose più riuscite del film: seguendo il filo dei vari film di cappa e spada e delle rappresentazioni teatrali sparpagliate lungo tutto Touch of Sin arriviamo alla geniale ultima scena in cui il confronto catartico non è più innanzi a qualche finzione spettacolare, ma alla realtà stessa, scoperta consistere di quell’intreccio tra continuo e discontinuo che siamo soliti demandare invece alla finzione.Sempre all’interno della vecchia commistione finzione/realtà (percorsa in lungo e in largo da Jia fin dall’inizio della sua carriera), i copiosi movimenti di macchina sciolgono insieme narrazione e location (o se si preferisce: azione e descrizione), queste ultime ovviamente gravide di suggestioni “geopolitico/documentarie” (vedere come si gioca a spaccare l’inquadratura tra città e campagna nel secondo episodio). Ma anche qui, Jia si smarca agile da ogni prevedibilità: il movente delle violenze è letteralmente introvabile, perché non può essere facilmente ascrivibile né “al sociale” né all’infelicità (profonda e immancabile) delle relazioni di coppia, bensì sempre all’abbraccio inestricabile e fatale tra il primo e le seconde. Il tutto in un racconto magistralmente congegnato, in cui la simmetria e il quadrare degli schemi si accompagna sempre e sistematicamente a qualche frattura e a qualche dissimmetria. Eccolo, il miracolo cinese: la coppia asfissiata alla fine de Il mondo (sua pellicola del 2004 vicinissima a questa) non finisce di morire, e rimuore in modi sempre diversi.