
Marco Müller dirige il migliore Festival di Roma mai realizzato. Se l’anno scorso aleggiava il rischio della chiusura, la settima edizione si svolge all’insegna del rilancio. Restano i difetti costitutivi della stessa kermesse: una manifestazione senza ragione di essere, un festival romano dopo Venezia e a ridosso di Torino, e una sede inadeguata quale l’Aditorium (per tacere della minuscola sala Maxxi). Ma non è colpa di Müller, che raccoglie una situazione già problematica. La mano dell’ex direttore del Festival di Venezia si sente e in poco tempo opera scelte chiare e precise: la traballante sezione Alice nella città viene scorporata e si svolge fuori dal complesso, come evento collaterale. Al suo posto la sezione CinemaXXI, una creatura di Müller, selezione dedicata alle “nuove correnti del cinema mondiale senza distinzione di genere e durata”: qui si vedono le cose più belle, secondo un concetto di “cinema totale” che scavalca il recinto dei minuti. Non si ha paura di proporre visioni peculiari o sperimentali per timore di allontanare i più indisposti. Dall’altra parte, il Concorso acquista vigore: nomi come Corsicato, Donzelli, Fedorchenko, Muratova e Johnnie To danno finalmente l’idea di una competizione viva e combattuta. A questo bisogna aggiungere due incontri di alto livello con registi (Paul Verhoeven e Walter Hill) e un’attenzione particolare a cortometraggi e mediometraggi tra cui Marina Abramovic, Almereyda e Weerasethakul.
Certo, non tutto è perfetto: la sezione Prospettive Italia non decolla e rischia di proporsi come “gabbia nazionale” già criticata in altri festival. Aumentano gli accreditati e calano i biglietti venduti, tendenza quest’ultima riscontrabile in tutte le manifestazioni culturali al tempo della crisi. Inoltre una settimana di programmazione è troppo lunga, inevitabilmente si incontrano giorni più sguarniti di altri. La giuria di Jeff Nichols sbaglia quasi tutti i premi, a cominciare dall’imperdonabile vittoria assegnata a Marfa Girl di Larry Clark. Ma sono difetti ampiamente passabili, rispetto a ciò che si è visto (poco) nei sei anni precedenti. Müller è Müller. E il risultato si vede: almeno tre bellissimi film, Le spose celesti dei Mari della pianura di Fedorchenko, Un enfant de toi di Doillon, Eternal Homecoming della Muratova; due film a sorpresa orientali scelti personalmente dal direttore sinologo, 1942 di Feng Xiaogang e Drug War di Johnnie To, entrambi apprezzati da tutti; la proposta costante di nuovi linguaggi che, anche quando imperfetti (si prenda A walk in the park di Amos Poe), suggeriscono strade diverse da seguire; il picco assoluto di Goltzius and the Pelican Company di Greenaway, un capolavoro. Le reazioni negative e distratte dei quotidiani italiani, che lamentano l’assenza di star, confermano le impressioni: ogni scelta va nella stessa direzione, arrotolare tappeti e lustrini e parlare “solo” di pellicole per una settimana. E così il Festival internazionale del film di Roma comincia a somigliare a un festival di cinema.