La pubblicazione di The Life of Pablo di Kanye West è stata preceduta da un twittare compulsivo che ha testimoniato gli umori dell’artista durante la lavorazione: la tracklist in perenne evoluzione, i featuring scartati e poi riammessi, i litigi (Wiz Khalifa) con mitragliate di messaggi, lamentazioni su presunti debiti, proclami («è il più grande disco di tutti i tempi», no «è solo uno dei più grandi di tutti i tempi», si intitola So Help Me God, no Swish, no Waves, no si chiama The Life of Pablo). Di riflesso le reazioni dei media: Kanye non sta bene, è fuori di testa, ha problemi.
Intanto l’album, uscito, diventa il primo della Storia a raggiungere la vetta della classifica senza un supporto fisico ed il primo a costituire un cantiere musicale aperto a tempo indeterminato, un lavoro che continua a cambiare, al quale Kanye non smette di dedicarsi, che potrebbe idealmente non finire mai. A giugno, dopo una prima fugace apparizione, esce la ventesima traccia (l’ultima, per ora…), Saint Pablo, forse l’apice dell’opera, sorta di geniale update, punto della situazione. Quale situazione? Quella di West, quella del disco: che sono la stessa cosa. Kanye West si concepisce come un’opera vivente (sto parlando di questo) e Saint Pablo è dunque l’ennesimo brano-specchio.
In esso l’artista continua il discorso già fatto su Twitter, fa puntualizzazioni sul modo di concepire il suo lavoro, la sua figura pubblica, la maniera di gestirli e, già che c’è, risponde alle insinuazioni sul suo equilibrio mentale. Così manda a dire ai media:
I’m not out of control
I’m just not in their control
E strizza anche l’occhio:
I know I’m the most influential
That TIME cover was just confirmation
This generation’s closest thing to Einstein
So don’t worry about me, I’m fine
Kanye West si esprime anche in questo esternare continuo, in questo darsi pubblicamente, senza posa. Nella sua spericolatezza, nel suo alzare la posta della sfida. Quel Twitter sempre acceso (l’ha definita una forma d’arte contemporanea e questo è un dato che pesa ai fini della riflessione) ha fatto di The Life of Pablo prima un work in progress condiviso con i suoi ammiratori – con post sempre divertenti, sbruffoni, rilanciati da tutti i media -, poi un disco attesissimo. Soprattutto ha messo in gioco ancora una volta non solo il personaggio, non solo l’artista, ma anche l’uomo. Senza filtri: I just feel like I’m the only one not pretendin’ recita ancora Saint Pablo.
Lontano galassie dalle millimetriche iniziative di Rihanna, lucida come pochi, che conduce una campagna per il disco Anti in cui non sbaglia nulla, West è sempre lì a sudare, soffrire, esaltarsi, puntare su un tavolo, vincere e perdere, imprecare, litigare, urlare di gioia, giocare col fuoco. Già, perché non realizzare un tradizionale cd, pubblicare i brani in esclusiva su Tidal e sul suo sito, gli ha fatto perdere milioni di dollari (I’ve been wakin’ the spirits of millions more to come/ A million illegally downloaded my truth over the drums: ancora Saint Pablo), ma ha contagiato chiunque, fautori e detrattori: che tutti in rete si accapiglino sull’arroganza e l’egocentrismo di Kanye West, divisi tra l’entusiasmo (è un genio) e il disgusto (è un coglione), dimostra che l’artista capisce il pubblico più di quanto il pubblico capisca lui.
Sì, come Lars von Trier, Kanye West è un manipolatore dell’audience: questo è un altro aspetto che rileva nel ragionamento sul video che andrò a fare.
L’altro aspetto di cui tenere conto nell’approcciarsi a Famous è il modo in cui Kanye West ha affrontato il suo progetto creativo in questi anni. Come quello di Björk, dai 90 in poi, anche quello di di Kanye West chiama in causa discipline disparate (compresa la moda) e personalità diverse, coinvolge l’ambito dell’arte contemporanea, senza predomini di un campo sull’altro, ma intersecandoli tutti e con la musica a fungere da collante (lo stesso TLoP è il frutto dell’atelier West: un disco in cui non si contano i contributi, le collaborazioni, le ospitate e in cui, a volte, lo stesso Kanye sembra la guest star del brano – si ascolti Fade, si guardino questi 5 minuti di tv straordinaria -). Il percorso videografico tracciato in questi anni – anomalo, inventivo, fuori dai canoni – conferma l’assunto: un quadro in movimento a firma Marco Brambilla e che estrapola solo un frammento di POWER; un kolossal egotico diretto da se medesimo, scritto con il compagno di mille avventure Hype Williams e con l’art direction di Vanessa Beecroft; la collaborazione con Nick Knight per i controversi visual di Yeezus; Steve McQueen che per All Day/I Feel Like That gli confeziona un one take inquietante (Kanye si agita in una stanza spoglia e segue la camera a mano, per poi esserne seguito, fino allo straniato canto finale, seduto a terra, ansimante) al centro di un’installazione museale: The Room. E ancora per All Day – forse il picco raggiunto dall’ultimo West, brano che nasce da una melodia di Paul McCartney, e che non è presente in TLoP – mette in piedi una performance memorabile ai Brit Awards 2015 che diviene, di fatto, il promo del singolo. E questo senza dimenticare altre eminenti collaborazioni del passato: Spike Jonze, Chris Milk, Nabil, Ruth Hogben, Jonas & François + So Me, Martin De Thurah e Michel Gondry (due esperienze diversamente problematiche). E l’avallo dello scherzo di Eric Wareheim che diventa l’unofficial official video di Famous. E il superbo video-ad diretto, da ultimo, da Steven Klein per Wolves (l’ennesima rottura di schemi consolidati: pubblicizzo un brano e una collezione di Balmain).
Tutto ciò precisato eccoci a Famous: prima della pubblicazione su YouTube, il video è in anteprima a pagamento al L.A. Forum, evento replicato in altre arene (che già significa attraversare un nuovo territorio), e poi offerto in esclusiva su Tidal per una settimana.
Kanye West maneggia, sornione, materiale infiammabile: nel mondo del selfie, delle molteplici repliche della propria effigie, di immagini che si spacciano per veritiere, l’artista stende su un letto enorme una sfilza di celebrità. Sembrano autentiche, non lo sono, ma non importa perché si tratta di segni contemporanei riconoscibilissimi. Una celebrazione della fama, nuda e cruda, come il brano stesso recita. Di quella di Kanye West, però. Perché tutti i personaggi che si trovano su quel letto si legano a eventi chiave della vita sotto i riflettori del rapper: moglie, ex, ex della moglie, ex patrigno della moglie, collega, rivale, presidente sputtanato eccetera (vedi rispettivi link): Kim Kardashian, Taylor Swift, Rihanna, Amber Rose, Donald Trump, Caitlyn Jenner, Bill Cosby, Ray J, Chris Brown, Anna Wintour, George Bush.
C’è un’epica personale in quel video, una mitologia tascabile, un drappello di vip che, dopo l’orgia mediatica dormono tranquilli l’uno accanto all’altro, consenzienti attrazioni del circo Yeezus, voci illustrate di un bestiario pubblico, personaggi di una storia da rotocalco di cui Kanye è protagonista e capriccioso artefice in un video fintamente leaked, dall’immagine sgranata, fotogrammi rubati da un occhio voyeuristico, quello che nutre il gossip e che di gossip si ciba, un Cenacolo volgare che cita esplicitamente il quadro Sleep di un pittore paradossalmente poco famoso, Vincent Desiderio.
Ancora una volta l’opera è lui, Kanye che dimostra che la provocazione e il conseguente clamore possono essere il frutto di una strategia eminentemente artistica: la fama è sempre fama, buona o cattiva che sia. E la fama di West è arte, un prodotto concepito prismatico perché possa essere letto in modo diverso a seconda della prospettiva dalla quale lo si guarda: uomo del Rinascimento, cafone arricchito, genio incommensurabile, creativo wannabe. Il video allora è semplicemente clamoroso: è un artefatto che, usando la celebrità come materia prima, ne produce altra. Bello? Brutto? La questione estetica non rileva: rilevi tu che sei lì a guardarlo.
E l’affaire Taylor Swift? È la stessa cosa, un fiume di parole dette e scritte, commentate, rimbalzate da un canale all’altro: Taylor la vittima che gli U.S.A. amano difendere, Kanye il lupo cattivo che continua ad approfittarne? O è il contrario? Non importa. Niente importa del merito di quella querelle, importa solo la sua risonanza, importa che noi si clicchi su questo video e che – lo si voglia o no – noi si sappia perché la cantante (il suo doppio in cera) è su quel letto («Ho reso famosa io quella stronza» dice la canzone). Ed è così: conosciamo a menadito il feuilleton di cui questo video fondamentale è l’ennesimo capitolo. Sappiamo già tutto: è questo il punto.