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CONVERSAZIONE CON BRUNO D’ELIA

Secondo te esiste una possibile via italiana al videoclip? Cioè si può arrivare a definire un percorso che pone il videoclip italiano su un piano originale, riconoscibile?

Parto dal fondo: originale non direi. Riconoscibile sì, nel senso che la maggior parte dei videoclip italiani sono riconoscibili, quelli delle major ad esempio, ricorrono agli stessi stilemi: hanno una fotografia simile, uno stesso sviluppo narrativo eccetera. Dal punto di vista concettuale o estetico non saprei risponderti. Ci sono delle cose di nicchia molto interessanti, quelle più indie: le idee migliori mi pare che partano da situazioni no budget o a bassissimo budget, probabilmente perché quando ci sono di mezzo le major queste dettano legge, pongono più vincoli: devi mostrare l’artista e questo in molti casi esaurisce la questione.

Cosa ci manca per far nascere una scena, com’è avvenuto in Francia o in Scandinavia?

Per come la vedo io, dal di fuori, da persona che si è posta lontano dal giro, manca, come nella musica, una produzione illuminata, una figura di produttore come quella che si trovava qualche anno fa, che scopriva un artista e lo sosteneva perché ci credeva. La forza di un produttore lungimirante che porta ad affidare il video a un regista che possa avere spazio, carta bianca e costruisca un percorso fuori dai soliti schemi. Nel mio caso succede che gli autori e gli artisti si rivolgano direttamente a me, che si affidino completamente alle mie idee, senza impormi paletti o vincoli.

Questo colloca il tuo lavoro fuori dai meccanismi della produzione tipica del videoclip italiano, perché segue logiche che potremmo definire autoriali…

Sì, perché a quel punto l’unico diktat è la scadenza, la consegna…

Qui mi aggancio subito al tuo ultimo video, Alzo le mani di Fabi Gazzè Silvestri: ho letto che è nato da una loro esplicita richiesta di interpretare visivamente questa canzone, un pezzo per loro molto importante perché ha segnato l’inizio della loro collaborazione.

Sì, erano affascinati dal mio immaginario, gli piaceva il mio mondo e mi hanno affidato l’intero discorso creativo.

Che idea hai seguito in quel caso?

Il mio modus operandi è sempre lo stesso: mi viene in mente un’immagine e da quella poi parto. La sera in cui ho ascoltato quel brano ho fatto una bozza di due parti del video, in particolare quella dell’inizio, con Fabi nelle fattezze di un carciofo e Silvestri in cartonato anatomico… Solitamente proseguo il lavoro come potrei fare con un quadro. Quindi non ricorro a una scaletta, a uno storyboard o a una sceneggiatura: seguo delle suggestioni. È, se vuoi, una sorta di mio metodo surrealista. O psicanalitico. In questo caso la canzone parlava di ricordi e di pezzi di storia comune ai quali i tre erano legati affettivamente. A quelli ho associato i miei ricordi e i miei piccoli pezzi di affetto.

Questa è una caratteristica di tuoi video, no? La rilettura fortemente intimistica e personale della canzone.

Sì, assolutamente.

E la reazione del trio com’è stata? Sapevano a che tipo di trattamento sarebbero stati sottoposti?

Ho fatto una bozza a grandi linee, con immagini statiche, e ho sottoposto queste tre ambientazioni: un vegetale, un elemento anatomico e qualcosa di etereo. Loro avevano visto il lavoro che avevo fatto per Samuele Bersani, lo avevano molto apprezzato.

Tra l’altro questo video si adatta molto anche al tipo di musica che propongono…

Sì, la costruzione musicale appena sentita l’ho acchiappata.

Cosa mi dici invece di quello a cui facevi accenno prima, la tua scelta di stare fuori dal giro….

Non è che voglia scappare, ci entrerei anche di testa nel famoso giro. È accaduto che  lavorando moltissimo per la pubblicità, con case editrici eccetera, orbitavo intorno a Milano. Poi, spostandomi in Sardegna, ho deciso di mollare l’acceleratore. È successo spontanamente, non c’è stata una decisione: sono entrato in contatto con questo mondo e il trait d’union funziona molto bene, perché stando lontano il tipo di lavoro che svolgo finisce per legarsi molto bene a questa distanza, diventando parte del discorso creativo. Certo, la grande città ha sì le sue pecche, ma anche i suoi stimoli, gli input sono notevoli. Qui non succede nulla. O lo devo far succedere io. Però qui sull’isola ho una calma, un’intimità, anche con me stesso, che mi ispirano, mi permettono di lavorare molto meglio.

Torniamo al video italiano: noto una tendenza imperante al vintage. In moltissimi video si fa riferimento a un immaginario anni Sessanta/Settanta, colori decisi, design dell’epoca, disegni optical, rimandi alla pop art. E poi l’oggettistica – le riviste con il classico impaginato, gli elettrodomestici, tutto un trionfo di modernariato.

Ho registrato anche io questo fenomeno – dal tattoo all’arredamento – e  vedo che sta emergendo prepotentemente. Dal mio punto di vista è una fortuna perché si fonda su elementi che mi appartengono moltissimo, per cui l’imporsi di questa tendenza ha finito con l’aiutarmi, in un certo senso l’ho anche cavalcata.

È una cosa che comunque ti è sempre appartenuta, no?

Decisamente, la mia formazione grafica ed estetica è quella. Anche io allora avrò la mia eclissi, quando cambieranno gli stilemi di riferimento… (ride)
Comunque, confermo, è una tendenza che ha preso molto piede e che noto in moltissimi video.

Sì, a volte a me pare anche troppo insistita, pedante…

…sì, un po’ stucchevole…

Quando è usata con cognizione di causa diventa però anche un tratto caratteristico del video italiano, una cosa solo nostra, se vogliamo. Oltre ai tuoi, penso ad esempio a un video come Mambo raezionario di Brunori sas, diretto da Uolli, così intelligente nell’uso di quel patrimonio iconografico. Lì c’è molta consapevolezza, non è soltanto l’applicazione di una maniera.

Sì, assolutamente, non è un esercizio di stile e basta.

Ed è un discorso che ci aiuta a uscire fuori da quella ottica anni Ottanta che impera nei video pop delle star nostrane… Il set con le luci colorate, il cantante sorridente e tanta voglia di vivere…

Esatto, che poi quei video sono fatti benissimo eh, ci sono fotografie stupende, molta professonalità..

Indubbiamente, ma spesso sembrano la conseguenza di una stategia comunicativa imposta dalle etichette…

Su questo non posso pronunciarmi perché non mi è mai capitato, non conosco l’orribile segreto. Però è molto probabile che il limite risieda nella politica portata avanti dalle etichette. Alla fine si ha a che fare con prodotti, il packaging è quello e deve essere riconoscibile. ben visibile. Più lo nascondi meno lo vendi.  Magari il prossimo video lo faccio così…

Sarebbe interessante una lettura alla tua maniera di quel format…

Guarda, questo discorso lo abbiamo affrontato anche con Samuele Bersani, perché volevamo fare un altro video dopo Chiamami Napoleone. Non siamo riusciti a realizzarlo, ma si discuteva con lui proprio della possibilità di estremizzare questa forma di comunicazione.

Del resto, oramai, al’estero, il discorso del video performance è diventato ultraconsapevole, quasi parodico, i termini dell’esibizione sono estremizzati, le icone sono esasperate.

Sì, la carnevalata lucida.

Torniamo a te. Mi parli della tecnica che usi?

A quella tecnica sono arrivato attraverso una mancanza mia, nel senso che, non essendo un abile disegnatore, ho sempre fatto, sin dalla più tenera età, un sacco di collage. Quando ero ragazzino realizzavo dei fotoromanzi dadaisti, con personaggi creati ritagliando pubblicità, libri d’arte e qualsiasi immagine mi passasse sotto mano. Con gli anni ho trasferito questa pratica, dallo statico cartaceo del quadretto, al video: avevo una bella banca immagine fotografica, perché mio padre era fotografo, utilizzavo un po’ di immagini sue.

Allora c’è un solido background…

Sì, quella base c’è: ho fatto da assistente a mio padre per un po’ di anni – ho quindi esperienza di stampa, camera oscura eccetera – e i primi effetti, i primi fotomontaggi li ho sperimentati con lui su pellicola, prima di Photoshop, in maniera più…

… artigianale…

Artigianale, sì, stavo per dire analogica ma è più corretto dire artigianale, era proprio un lavoro di quel tipo. Lavorando nella pubblicità, poi, ho incontrato delle problematiche e le ho superate imparando a usare i software per cui…

… per cui sei diventato il mago della motion graphics

…lo smanettone cieco… (ride)

I tuoi continui slittamenti di senso, le deformazioni ironiche, gli accostamenti inconsueti profumano di surrealismo. Il primo nome che mi balena in testa, guardando i tuoi video, è quello di Max Ernst.

Assolutamente, da bambino avevo una serie di libri, me li sono magiati con gli occhi, la base culturale è quella. Poi c’è – c’è ma non si vede – Francis Bacon: lo amo molto anche se è più difficile da mostrare, è un po’ troppo cupo e viscerale però è un mondo, il suo, che mi piace moltissimo. Poi ci sono sempre Buñuel, Dalì… Come riferimenti non narrativi posso dire Fellini…

Sì, tutto questo ambito artistico visionario, non realista…

Sì perché l’oggettività è un limite dell’immagine, e questa è una delle ragioni per le quali ho virato sulla motion graphics: la realtà – anche se non è la realtà vera, ovviamente, perché è un’altra realtà, una realtà riprodotta – mi limitava sempre. Invece con la grafica c’erano da fare dei passi in più, ci sono più gradini da percorrere e questo mi aiuta a pervenire in una dimensione che mi interessa, una dimensione impossibile, mi facilitava la ricostruzione di questi mondi artificiali, immaginari.

Azzardo: i tuoi lavori mi ricordano moltissimo quelli di Jim Blashfield, che negli Ottanta era uno dei miei registi preferiti: The Boy in the Bubble, Leave Me Alone, Sowing the Seeds of Love… Anche lui usava questa tecnica della multi-immagine, del collage, delle narrazioni accennate sullo schermo, attraverso vari fili, e del mescolamento di live action e animazione. Ecco, quando ho visto i tuoi video la prima volta, al di là dei riferimenti che ti ho detto, ho pensato subito a lui…

Sì, il meccanismo è quello, sia di ricostruzione che di finalizzazione: ti resta quell’immagine stilizzata forte che riconduci subito all’autore. Sì, quello di Blashfield è un mondo che mi è molto vicino. Il video di And She Was, per esempio, lo amo tantissimo,  anche quello è un lavoro artigianale… Il mio, e questo mi fa incazzare, è più freddo se vuoi, quello invece ha un calore che deriva proprio da quel modo manuale di crearlo…

Credo che una delle ragioni per le quali i tuoi video mi piacciono così tanto è perché vi ritrovo quello spirito, vi ritrovo quel tipo di approccio che avevo davvero adorato all’epoca, intendo quell’attingere a iconografie generalmente riconoscibili, ma riproposte in chiavi inaspettate. È uno stile che poi in seguito ho riscontrato pohissimo. Che strano, una cosa così bella e originale… Sembrava un discorso meritevole di essere proseguito…

Probabilmente questo è avvenuto perché sono video che non pagano sul fronte del pubblico…

Forse l’unico che oggi fa questo discorso è Jonas Odell. Pensa a Take Me Out dei Franz Ferdinand…

Sì bellissimo quel video… Ma ripeto, secondo me è perché sono clip che non ripagano sul fronte della diffusione e del riscontro da parte del pubblico. Detta in maniera brutale: se tu vedi le visualizzazioni dei miei lavori, non è che facciano sfracelli…

Perché è un approccio alto…

… o forse perché i miei video sono fatti per un particolare cantautorato che è più di nicchia rispetto a quello di altri artisti. Forse la gente li trova complessi, preferisce un approccio più semplice… Faccio delle ipotesi…

Sì, dipende anche dall’artista, certo. immagino che se tu facessi un video, non so, per Laura Pausini o Vasco Rossi, le cose sarebbero diverse.
Tornando ai tuoi lavori. Mi hai detto che Cromatica per Marta Sui Tubi e Lucio Dalla è il video nel quale ti riconosci di più. È forse anche il tuo capolavoro.

Sì. Io preferisco dire che è quello più simile a me. È un meccanismo interno sia di iconografie e di atmosfere, che è quello che vorrei vedere. Sono pochi i miei lavori che riguardo e, generalmente, quando li riguardo li odio. Quello, invece, più passa il tempo più lo riguardo, più ci entro dentro. Mi fa star bene, è come se fosse un antro di ricordo di un bel periodo, è una madeleine che mi piace riassaporare.

Quindi ci ritrovi cose molto tue, è intessuto di suggestioni che ricolleghi molto al tuo personale…

Sì, sì, ma tutti i miei lavori sono personali…Alla fine, e forse la sparo grossa, il mio è un metodo psicanalitico. O di autoanalisi, in cui ci metto tanto, a volte troppo di mio; per questo a volte restano dei discorsi poco comprensibili

Però sono proprio video come questi che riescono a creare sensazioni più profonde, perché non c’è quella rispondenza, a volte schematica e prevedibile, tra quello che dice la canzone e quello che mostrano le immagini… Agiscono su altri tasti, meno razionali, in cui senza dover ricostruire pedissequamente un percorso di senso, senti semplicemente che tutto funziona. Che poi è, tornando a quanto si diceva prima, quello che manca un po’ al video italiano: questo tipo di libertà.

Sì io preferisco seguire un percorso più deviato, personale, un po’ onirico che è solo mio. Che anch’esso può diventare un limite, ovviamente. Comunque, per  tornare a quello che si diceva sulla situazione italiana, manca la libertà per i registi ma forse c’è anche una certa passività degli stessi che questa libertà, a un certo punto, dovrebbero prendersela.

In Chiamami Napoleone di Bersani lavori su iconografie classiche, moderne e premoderne, c’è un collage mobile, una fantasmagoria con questi continui cambi di piani…

L’idea è partita da Bersani che aveva già concepito l’idea del collage per la copertina del suo disco. Siamo partiti da questo lungomare, da questo muretto, per raccontare  gioie e dolori degli ultimi sessant’anni in Italia. Potevamo essere più cattivi in fondo, comunque l’idea era quella di concepire una cartolina italiana che illustrasse questo periodo.

E quindi è stata una concezione a due quella di questo video…

Sì, a quattro mani. La produzione l’abbiamo portata avanti in un mese, io qui ad Alghero e Samuele a Bologna. Ci sentivamo tutti i giorni su Skype e facevamo il lavoro insieme. Abbiamo unito i nostri bagagli culturali, i rispettivi patrimoni di immagini e di visioni. Abbiamo ricostruito un immaginario comune, live, per così dire.

È un video ricchissimo, pieno di invenzioni e di riferimenti pittorici (dal giudizio universale michelangiolesco a Magritte), il volto di Bersani è pronto ad assumere tante maschere quanti sono i personaggi evocati (da Napoleone a Morricone, fino a Fellini…), il tutto con la consueta leggerezza. Per dirti, io rimango molto colpito da quel riferimento a Intervista di Fellini, con i due pittori del fondale del cielo… Che mi pare un buon esempio di quello che dicevamo prima: puoi cogliere il riferimento, riconoscerlo, ma, se questo non accade, l’immagine, a livello compositivo, funziona in sé.

Infatti. La cosa interessante è che lavorando così ci siamo scoperti molto simili, c’era molta sintonia. Avevamo le stesse idee, abbiamo scoperto di avere un retroterra comune.

Allora quel secondo video con Bersani bisogna assolutamente farlo

Lo spero, lo spero.

Poi ci sono i video per Rita Pavone. Com’è avvenuto il contatto?

Lei aveva visto il video di Cromatica e aveva sentito anche Lucio Dalla, credo. Le era piaciuto moltissimo e mi ha contattato. Una sera mi ha scritto una mail, quasi non ci credevo, perché mi ha chiamato la segretaria e io, avendo appena concluso un video di rock bello duro, ho pensato ad uno scherzo. E invece no, era lei, le piaceva molto il mio immaginario. Ed è partita la collaborazione. Abbiamo fatto tre video e adesso esce By Myself che in realtà è il primo che abbiamo realizzato. Nel secondo, I Want You With Me,  ho usato l’idea del libro pop-up e nel terzo, Rainin’,  per cambiare approccio, ho fatto più live action e meno motion graphics anche se poi gli scenari sono tutti ricostruiti su greenback. Abbiamo fatto questo video più noir. È stata una bella collaborazione perché lei è un super personaggio, è energetica, è positiva, ha un sacco di idee. È micidiale, una bomba.

Questo ci porta a parlare di quanto sia importante collaborare con l’artista di cui si sta portando sullo schermo la canzone. Prima dicevi di Bersani, ora della Pavone. C’è sempre uno scambio? E poi: quanto pesa la canzone?

Parto dalla fine: la canzone è importantissima. Se non mi ci trovo non esce niente di buono. Valuto sempre il pezzo. Sia di un artista misconoscuto o di un cantante affermato, perché, se il brano non è nelle mie corde, entriamo in una valle di lacrime, come dico sempre per citare Il grande Lebowski. Per cui se la sento vicina, se la sento mia, se la canzone mi piace, la strada è spianata, altrimenti mollo il colpo, lo dico subito. Anche perché ho provato ed esce un brutto lavoro che non accontenta me e che mi fa soffrire soprattutto…

Questa è anche una conseguenza del fatto che lavori molto su di te, sulla suggestione pesonale, quindi è ovvio che la creatività proceda di pari passo…

Sì, ripeto, diventa una sofferenza. Subentra una sensazione di inadeguatezza rispetto al pezzo, quindi preferisco non lavorarci. E poi, tornando alla prima parte della domanda, non con tutti si instaura un rapporto. È importante, mi piace la collaborazione e forse i lavori migliori li ho fatti quando c’era questo dialogo, però non di necessità. Con i Marta Sui Tubi, ad esempio, non c’è questo tipo di comunicazione diretta. È una cosa abbastanza naturale, siamo oliati così: lavoro in solitaria e man mano mando loro dei brani.

A proposito dei Marta, il tuo video per Salva gente, il pezzo con Battiato, ha appena vinto il PIVI (Premio Italano del Video Indipendente)…

L’idea iniziale di Salva gente nasce da un film sperimentale di Michael Snow, Presents (1981), in cui c’era una carrellata in avanti in una stanza che durava una ventina di minuti, dove il movimento di camera spostava in avanti gli oggetti: man mano che l‘obiettivo avanzava, tutti gli oggetti venivano schiacciati sul fondo.
Era un’immagine forte che mi aveva molto colpito: mi sembrava molto agganciata al testo. Il budget non permetteva di realizzare il clip come lo avevo concepito e quindi, facendo di necessità virtute, ho fatto in modo che fossero i membri del gruppo ad essere schiacciati sulla camera. L’idea iniziale era quella. Poi tutte le ricostruzioni sono state concepite dopo, anche se di base le avevo già in mente, e le ho realizzate in 3D. È stato il mio primo esperimento tridimensionale. Poi ho affittato uno studio dove ho montato questo plexiglass fronte camera, e ancora su green screen. È il primo video girato in un vero e proprio studio.

Il video di Abbiamo vinto la guerra  per Lo Stato Sociale è un po’ diverso dagli altri…

Sì, mi hanno chiamato a video fatto. Sono stato il trait d’union, c’erano già le riprese realizzate da Filippo De Palma. Ma il gruppo non era convinto, e neanche il produttore per cui, con i soldi rimanenti, mi hanno chiesto di realizzare in post degli inserti.

È venuto molto bene!

Sì, fatto di corsa in dieci giorni, tra l’altro, ma alla fine tutti felici e contenti.

Poi ci sono i video per i Nadàr Solo, con certi toni molto darkeggianti, tonalità molto cupe…

La cupezza forse è colpa mia: i brani me li sentivo così. Il primo pezzo, Il vento  con Il Teatro degli Orrori (il cantante, Matteo De Simone, ha scritto anche un libro con Pierpaolo Capovilla), l’ho girato in sala di registrazione, one man band, molto velocemente, con due luci. L’altro, completamente fatto in casa, anche quello praticamente tutto da solo. Le case senza le porte è stato finalista al PIVI, tra l’altro, ma non ce l’ha fatta. Come mood li sento molto vicini, quei due video mi piaccono molto.

Quanto conta per te il montaggio nel videoclip?

Conta, conta tanto. Lo utilizzo poco perché la maggior parte dei miei lavori prevede movimenti in piano sequenza, a parte questi ultimi di cui abbiamo parlato – quelli per Nadàr Solo e Salva gente – perché per il resto prediligo il piano sequenza che un po’ lo uccide il video. Il montaggio ti dà una marcia in più.

Certo, è molto difficile gestire il piano sequenza nel discorso del clip…

Sì perché un po’ ammazza l’attenzione e dal punto di vista produttivo ti ammazza il fegato…

Alla fine la tua, però, è una sorta di sfida perché poi, a ben guardare, i tuoi video sono tutt’altro che privi di ritmo; sono al contrario molto mobili, per niente statici…

Cerco, per quello che posso, anche in relazione ai pezzi di cui dispongo; so bene che un montaggio cosciente è il 90 per cento del lavoro. Quando posso lo utilizzo anche molto, magari in modo dissimulato come in Alzo le mani dove Fabi, Gazzè e Silvestri sono divisi da una falsa tendina per cui non è un movimento continuo, come può esserlo quello di Cromatica.

Per finire, mi fai qualche nome di regista italiano che ti piace?

Mi piace molto il regista di Edda, Neon, molto semplice, ma efficacissimo (L’innamorato). Mi piace Fabio Capalbo, i suoi lavori per Edda, per Verdena, Capossela e il Il re muore di Bersani per gli Egokid. Virgilio Villoresi mi piace moltissimo, ha la mano raffinata. Anche l’ultimo video per Dente, Chiuso dall’interno, è studiato, pensato, realizzato molto bene. Mi mordo le mani quando vedo quei lavori, perché lavorando da solo certe cose non me le posso permettere, ma quel video, come tutte le cose che Villoresi fa, è un gioiello. Mi piace Grafus (Colapesce: Restiamo in casa; Le luci della centrale elettrica: Quando tornerai dall’estero) anche lui usa tecniche particolari come il rotoscoping, ha un suo modus operandi assai riconoscibile.


Bruno “Mezzacapa” D’Elia (1980) è un videomaker italiano. Nato a Castellammare di Stabia, vive ad Alghero.  
 

Sito ufficiale

(foto: Lucca Film Festival)