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VIDEO|MUSICA AGOSTO 2014

Incontro Peter Greenaway in occasione dell’inaugurazione della rassegna Scolpire il tempoMindcraft, curata da Alessandro Romanini, al MuSA, il Museo Virtuale della Scultura e dell’Architettura di Pietrasanta. La manifestazione si apriva con una serie di opere in video del regista, con la presentazione del catalogo The Towers/ Lucca Hubrys dedicato all’omonima installazione del regista prodotta lo scorso anno a Lucca da Change Perfoming Arts e proseguiva con una selezione che prevedeva, tra le altre, opere video di Raul Ruiz, Bill Viola e David Lynch. La rassegna si chiudeva con Immagini che suonano bene. Musica e Arti Visive. Una relazione infinita, una selezione, curata dal sottoscritto, di videoclip italiani degli ultimi cinque anni di cui do conto in chiusura.
La conversazione col regista, un breve e alquanto divertente pour parler, verte sul tema del videoclip e sul rapporto tra immagini e musica.

L’anno scorso, parlando dei video, diceva che nel campo dei clip musicali si sperimenta molto e che per lei i videomaker che collaborano, ad esempio, con Lady Gaga sono più interessanti di Scorsese.

Era ovviamente un’affermazione provocatoria. Sono interessato a tutte le forme che associano musica e immagine, cosa che è piuttosto evidente guardando il mio cinema. Ciò che giova è la loro lunghezza: i videoclip, fortunatamente, sono molto corti e non ti stancano facilmente. Ma, come per ogni cosa, anche tra i video ce ne sono di molto brutti e noiosi. Quelli che prevedono le band che suonano sono forse i peggiori.

Come mai a suo parere i videoclip sono così aperti alla sperimentazione, al contrario del cinema?

Credo che la principale ragione sia la narrativa: non prevedono alcuna necessità di raccontare una storia. Abbiamo plasmato il cinema sul racconto delle storie, così il pubblico va in sala per farsene narrare una anche se il cinema, in realtà, non è il mezzo più adatto per farlo nella maniera più appropriata e chi ci prova non è detto che lo faccia con successo. Il video hanno invece questa libertà di allontanarsi dall’esigenza di illustrare un testo.
E delegano ogni esigenza espressiva alle immagini….

Ho questo dilemma. Mi lamento di continuo del fatto che il cinema è diventato una forma di illustrazione virtuale di un bookshop, ma ciò accade perché il cinema ha una struttura che si relaziona strettamente con la nozione di letteratura piuttosto che con quella del produrre immagini. Ma se non sto attento, collaborando con musicisti e compositori, come di fatto faccio, mi si potrebbe accusare di fare della semplice illustrazione della musica e per me “illustrazione” è una parolaccia. Non sono un illustratore. Ho bisogno di essere il motore primo della creazione. Ed ecco un’altra cosa che ti potrebbe divertire: ho lavorato con molti compositori, alcuni famosi, altri meno, ma abbiamo sempre litigato, abbiamo sempre finito per discutere, c’era sempre una dicotomia aggressiva, penso che sia una questione che abbia a che fare con l’egotismo. Prendi la questione fondamentale: è l’immagine a dover seguire la musica o la musica a seguire l’immagine? Perché, sai, molti compositori sono egocentrici esattamente come la maggior parte dei registi. Così ho litigato con Michael Nyman, non ci parliamo più; ho litigato con Louis Andriessen; sto per bisticciare con Philip Glass: stiamo per fare un’opera insieme ma la lavorazione si è fatta molto difficile per questo motivo. È una cosa ancora in ballo ma… Non penso che potrei fare un film senza musica, ma le tensioni tra chi crea la musica e chi crea le immagini sono spesso un problema.
Quando il suo film L’ultima tempesta (Prospero’s Books) fu presentato a Venezia molti critici lo definirono un lungo videoclip…

Beh, hai sicuramente visto I racconti del cuscino (The Pillow Book). A metà di quel film, deliberatamente, c’è un videoclip.

Sì, Blonde, la canzone di Guesch Patti…

Esatto, e lo abbiamo anche estratto dal film: la stessa Guesch Patti lo ha usato come un videoclip alla televisione francese che lo ha rimandato per diciotto settimane circa. Ho fatto quella cosa con molto piacere, ma non è stato certo un lavoro su commissione. Sai, il gancio era Jean-Paul Gaultier, che è un grande amico di Guesch Patti, che me la presentò. Comunque, girammo le immagini inizialmente per soddisfare tutti gli scopi narrativi e poi ho pensato, ok, la narrazione del film si deve fermare se noi dobbiamo creare uno spazio dove essenzialmente si gioca (play) – e uso play nel senso inglese – con la nozione di immagini non narrative e secondo un’ associazione di senso che abbia una connessione, una base, un’organizzazione, un’agenda che sono musicali. E credo che in particolare il testo di quella canzone fosse molto appropriato e coerente con quello che volevamo fare.

Comunque per molti dei suoi film le musiche sono state composte prima delle immagini. In quel caso ha seguito un metodo di lavoro che può essere assimilato a quello dei videoclip, no?

Sì, potrebbe essere vero. Tutti i miei film sono speculativi. Ma nessuno mi ha mai commissionato un film. Sono le mie fantasie, sai. Sogno qualche cosa e dico: “Ok, devo fare un film su questa cosa”. Quindi non saprei, certo la relazione tra musica e immagine non è sempre la stessa, ma al contrario, si presenta in modi sempre differenti. Per dire, hai visto Il ventre dell’architetto, no?

Sì, lì c’erano le musiche di Wim Mertens e Glenn Branca.

Sì, questa cosa che sto per dirti non ha a che vedere con le musiche di Mertens, proprio per niente, ma con quelle di Branca. All’inizio ero entusiasta della musica di Glenn Branca che probabilmente conosci. Per quanto mi piacciano i suoi concerti, lui è molto minimalista e in essi non accade molto, ma ciò che accade è molto molto potente. E insomma eravamo in uno studio e gli dissi: “Ok, qui c’è un film di centoventi minuti e abbiamo bisogno di un po’ di musica”. E lui scrisse, credo, quattro minuti di musica. Ok, così gli ripetei tutta la dannata storia, cioè che avevo bisogno di più musica. Insomma, la situazione diventava un po’ disperata. Così attirammo nel progetto Wim Mertens all’ultimo minuto. Forse non dovrei raccontarti queste storie ma, ripeto, è per dire che all’atto pratico le cose si rivelano sempre un po’ differenti. Ricordo sempre questo aneddoto su Buñuel che stava girando Quell’oscuro oggetto del desiderio e aveva impiegato un’attrice che dopo tre o quattro settimane non sopportava più, odiava anche l’idea di essere con lei nella stessa stanza e diceva: “Non può andare avanti così, non ce la faccio!”. E il produttore disse: “Oramai non puoi più tirarti indietro, abbiamo messo i soldi, devi proseguire la lavorazione”. E lui disse: “Allora licenziamo l’attrice e troviamone una nuova”. Ma il produttore aggiuse: “Comunque non puoi buttare via tutte le scene che hai girato”. Così trovarono un accordo per il quale due diverse attrici avrebbero ricoperto lo stesso ruolo. E quando il film uscì tutti dissero: “Che grande idea! Che idea geniale!”. In realtà era tutto nato accidentalmente dal fatto che Buñuel non sopportava più la prima attrice. È un po’ la cosa che è accaduta con la storia della teoria del montaggio di Eisenstein: lui usava spesso segmenti molto molto corti, a volte non duravano più di cinque secondi e la gente quando vedeva film come Sciopero diceva: “Wow! Straordinario! Straordinario!”. In realtà tutto nasceva dal fatto che durante la guerra civile russa (russi rossi contro russi bianchi)  non erano riusciti a trovare pellicola se non da questi stock con segmenti molto molto corti. Così molte di quelle riprese erano brevissime non perché Eisenstein le volesse così, ma perché non c’era abbastanza pellicola per farle più lunghe. Così ancora una volta da un evento accidentale derivò il suggerimento per un’idea brillante. Ce ne ho un’altra su Alain Resnais. I suoi film parlano sempre della memoria e del tentativo di ricordare. Pensa a Mon oncle d’Amerique. Ecco, lui aveva uno zio americano che gli mandava i fumetti, ma siccome il servizio postale intercontinentale funzionava male i fumetti gli arrivavano nell’ordine sbagliato e questa cosa impose in lui l’idea di una memoria disordinata che lo portò a creare film come, appunto Mon oncle d’Amerique. E così ancora una volta puoi constatare come qualcosa di molto pragmatico e pratico si trasforma in… Poi i Cahiers du Cinema o Positif improvvisamente decidono che quelle sono decisioni estetiche geniali. E invece non lo sono affatto, sono solo casualità pratiche, esattamente come è avvenuto nel mio caso con le musiche de Il ventre dell’architetto.
Tornando ai videoclip…

Sì, ricordi quando uscirono i primi videoclip? Sai, ed io sono molto più vecchio di te, ricordo che allora i primi che uscirono furono una grande grande sorpresa, davvero eccitanti. Ma improvvisamente, gradualmente negli anni, si sono trasformati in tappezzeria. Non li guardiamo più. Voglio dire: torni a casa e guardi la tua tappezzeria? Non penso proprio. Così in un modo assai curioso i video si sono trasformati in carta da parati, non gli dedichiamo più alcuna attenzione. Voglio dire, probabilmente tu sì, immagino tu ne veda sempre, ma io non posso pensare di guardare coscientemente dei video pop per lungo tempo. Sai, giravo già film quando uscirono i primi video di Mick Jagger e io stesso ne ho tratti da un paio da canzoni dei Beatles tanto tanto tempo fa  [1]. Spero si siano persi e che nessuno ne senta più parlare, non erano niente di che.

[1] Greenaway si riferisce a Revolution un video sperimentale del 1967 da lui diretto e montato in cui, sulle note dell’omonima canzone dei Beatles, scorrevano le immagini delle manifestazioni pacifiste davanti all’ambasciata londinese degli Stati Uniti. Si tratta di un video in cui quelli che inizialmente appaiono come presupposti realistici (le proteste degli studenti, la massa di persone che manifesta) sono smentiti dal predominare dei principi strutturali: il video si fonda sul ritmo dettato dal brano dei Beatles e, in un modo che è molto vicino alla filosofia cinematografica futura del regista e al discorso di molta videomusica contemporanea, usa le immagini per quello che offrono figurativamente e per il loro movimento, più che per quello che rappresentano. Il video è tutt’altro che sparito, e ho avuto modo di vederlo diverse volte in retrospettive o rassegne dedicate in questi anni al regista. Ma questo ho preferito non dirlo…

Grazie ad Aessandro Baratti, Elisa Schiavi, Riccardo Olerhead.
Peter Greenaway e il videoclip.


Di seguito i titoli che ho selezionato per Immagini che suonano bene. Musica e Arti Visive. Una relazione infinita dedicata a videoclip italiani recenti:

Aeroplane (Moustache Prawn) di Acqua Sintetica, 2013

Bei momenti (Fritz Da Cat feat. Fabri Fibra) di DeeMo, 2014

Cromatica  (Marta sui Tubi feat. Lucio Dalla) di Bruno D’Elia, 2012

Fa Ridere (Numero6) di Stefano Poletti, 2012

Giardino Comunale  (Maria Antonietta) di Dandaddy, 2014

Jambiya (Ronin) di Davide Fois, 2014

Mambo reazionario (Brunori Sas) di Uolli, 2014

Qwerty  (K-Conjog) di Francesco Lettieri, 2012

Scegli me (un mondo che tu non vuoi) (Verdena) di Saku (Roberto Cinardi), 2011

Siamo tutti uguali (Dargen D’Amico) di Matteo Bombarda e Matteo Podini, 2013

Storia di un artista (I Cani) di Luca Lumaca, 2013

Submarine Test January (John Mayer) di Virgilio Villoresi, 2013

Questa vita cambierà (Nada) di Francesco Lettieri, 2014

Vendetta  (Calibro 35) di Imperat, 2014

Welcome to Babylon (A Toys Orchestra) di  Marco Missano, 2012

Wes Anderson (I Cani) di Luca Lumaca , 2012

You closed my Eyes (DJ Tennis) di Virgilio Villoresi, 2014