L’animazione passo uno è diventato a tutti gli effetti un linguaggio privilegiato della videomusica e viene applicato in maniere e ambiti molto diversi, con risultati a volte soprendenti. E’ il caso di Lose this child di Eatliz, diretto da Yuval Nathan e Merav Ben Simon, reduci da un altro stop motion, il premiatissimo Her morning elegance, quasi venti milioni di visualizzazioni su You Tube: ambientato interamente in una spiaggia, usa la sabbia per rappresentare il viaggio verso il mare di alcune tartarughe, mentre la voce femminile del brano scaturisce da un volto anch’esso ricavato dal fondo sabbioso. Il video, di fattura particolamente ardua se si pensa che ogni singolo movimento ha necessitato di un lavoro compositivo sull’arenile, ha richiesto un mese di riprese e racconta con poesia e senza melassa la sua piccola storia. Voto: 6.5
Stop motion (mista a un lavoro di sovrapposizione) anche per Phillip Niemeyer & Dan Forbes: The Hunt per Woom ripropone, con elegante materismo, il mito di Persefone; l’uso visivo degli elementi naturali ricorda l’eleganza e lo stilismo del raffinato lavoro grafico di Vaughan Oliver. Voto: 6.5
Stop motion, inserti animati, postproduzione con Photoshop e Final Cut Pro per Map of an englishman di Erland & The Carnival [foto], video diretto da Marco Sandeman, regista tra i più eclettici in circolazione, che ha sempre evidenziato, nella varietà degli approcci e dei registri utilizzati (per tutti: il cinema classico per Laid to rest dei Molotov Jukebox, un bianco e nero polveroso con dettagli di colore rosso vivo; i ricami visionari al realismo d’antan di That day dei Villagers o le pirotecnie visive di Sing the changes per The Fireman/Paul McCartney) una vena fortemente compenetrativa al brano musicale messo in immagine. Il brano si ispira all’omonima opera di Grayson Perry, un disegno del 2004 che rappresenta un’isola immaginaria circondata dai mari Schizofrenia, Delirio, Disturbo Bipolare, Anoressia Nervosa etc e in cui i nomi delle sue località rispondono alla medesima logica (Rimpianto, Angoscia, Rabbia, ma anche Album di Foto, Filmato di Matrimonio, Moglie, Indirizzi, a ricostruire in forma di cartina, un percorso umano completo): il video, basandosi sul medesimo principio, fa del corpo del protagonista una mappa visibile delle sue componenti emotive e dei suoi più o meno disturbati stati d’animo. Voto: 6.5
Come variazione autoriflessiva della medesima tecnica vale la pena dare uno sguardo al vivace esercizio di Ethan Lader per Good life di Onerepublic (voto: 6).
Michael Reich (aka Michael.) dirige Holing out degli Yuck (il precedente video Rubber, sempre per Yuck, il ralenti paraerotico del lavaggio di un cane, lo avevamo segnalato nel numero di gennaio): le immagini di un horror, una ragazza inseguita da una creatura famelica durante una tormenta di neve, si alternano in un’unica soluzione a quelle del gruppo che suona, come si trattasse di due tracce televisive su canali diversi, in cui l’una agisse come interferenza dell’altra (una serie di effetti di disturbo in dissolvenza incrociata ce lo segnala); mentre le immagini risultano sempre più deformate ed effettate (la performance, su bluescreen, vira acidamente in negativo e si sovrappone all’altra traccia) il mostro, raggiunta la ragazza, la denuda e le affonda nella carne gli artigli. Effettacci parossistici per un video not suitable che regge alle inevitabili re-visioni. Voto: 6.5
E’ una lotta tra i due sessi quella evocata dallla protagonista di Relax my beloved di Alex Care, diretto da Matei Alexandru Mocanu: l’ispirazione è quella dei film d’autore anni 70, lo sfondo è spoglio, la fotografia livida, l’immagine, in tema, non può che essere analogica (registro evocato dai difetti del nastro che enfatizzano il contenuto, secondo un modello di “difetto ostentato” da decenni elevato a canone): un uomo e una donna si affrontano con cruda violenza verbale resa dalla esplicita immagine di un braccio che dalla bocca dell’assalitore si protrae fino a quella dell’interlocutore. Immagini indubbiamente forti, ma l’idea è una e la situazione viene dilatata per l’intero video che, palesemente, decide di giocare la sua carta migliore verso la metà. Non ci casco. Voto: 6
Ian Bonhôte (aka Emma, regista di molti commercial di successo) immagina per il gruppo scozzese Kassidy un ospedale psichiatrico in cui le degenti sono tutte top model: i loro atteggiamenti da passerella vengono dunque enfatizzati e ritradotti in forma maniacale; il finale ribalta il ruolo dei membri del gruppo che, inizialmente individuati come terapeuti, interpretano i pazienti, mentre il primario diventa una modella in abiti mascolini.
I don’t know è una citazione, non saprei dire quanto malandrina, quanto inconsapevole, quanto voluta, di un servizio fotografico di Steven Meisel per un numero di Vogue di qualche anno fa. Voto: 6.5
Chris Marrs Piliero dirige Howlin’ for you dei Black Keys come un falso trailer: il film sarebbe un revenge movie in odor di serie B, un po’ Tarantino, un po’ (soprattutto) Rodriguez, con trama in chiara evidenza e qualche battuta ad effetto (il reverendo: I’m pretty sure God willl consider it a sin not to glorify that ass!): a differenza di quanto avveniva in Knights of Cydonia dei Muse, il falso trailer diretto nel 2010 da Joseph Kahn, in questo caso la voce fuori campo copre quasi del tutto il brano e questo crea l’impressione di trovarsi di fronte a un effettivo promo (l’introduzione su IMDB perpetua un equivoco in cui molti sono caduti). Con Tricia Helfer, Sean Patrick Flannery, Todd Bridges e, per la prima volta sullo schermo, Las Taclas de Negro (The Black Keys). Voto: 6.5
Jamie Thraves, autore (regista/sceneggiatore) a tutto campo (non mancano incursioni nel cinema – The cry of the owl, bel film dal romanzo della Highsmith, e Trecle Jr. da ultimi), di personalità autoriale ben definita (una visione del mondo quasi kafkiana attraverso la quale si narra di un’umanità in crisi d’identità che vive esistenze in vario modo opprimenti), nel carniere delle clip lavori molto interessanti (soprattutto ad inizio carriera) per Blur, Verve, Razorlight, Roisin Murphy, Coldplay (The scientist) e Radiohead (Just, che partiva da un suo preesistente, emblematico corto), torna con un video narrativo dei suoi, Song for Lisa dei Japanese Popstars, che punta sull’imprevedibile finale: dal risveglio mattutino l’errare di una ragazza, in una città balneare, si muove in parallelo con quello di lei bambina nei medesimi luoghi. Il percorso presente e quello passato si incrociano in una squallida periferia dove, nel passaggio decisivo, con grande fluidità e senza sottolineature, ci rendiamo conto che la ragazza si prostituisce. Voto: 6.5
Hope Audikana (Ryan Hope e Egoitz Audikana) firma lo split screen di Drive degli Alpines [foto]: assecondando il consueto verbo di eleganza decadente – un registro rigorosamente fashion, certo, ma senza ombra di patinatura – lo virano completamente in negativo e, fidando sulla suggestione dello schermo sezionato e dei giochi invertiti di luce e di ombre, compongono un lavoro molto incisivo (voto: 7). Il duo, che opera nel mondo dell’immagine a tutto tondo, firmando anche splendidi servizi fotografici, dirige anche la straniata parabola di Teenager dei Mona, insistendo sul suo mood più consueto e riconoscibile. Voto: 7
La videoprovocazione è un genere in voga perenne e che sempre di più assume fattezze aggressive e choccanti: Yonkers di Tyler the Creator non fa eccezione. Wolf Haley/Tyler dirige se stesso in un video-performance visivamente rispettoso dei codici e che colpisce perché consuma la sua eversione in questo contesto formalizzato e riconoscibile: il fondale è bianco; l’artista si presenta prima in silhouette in piano americano, poi in piena luce e, con morbida carrellata, in primo piano; l’immagine ostenta un raffinato bianco e nero, moderatamente blurry. Sembrerebbe quasi una clip che emula innocuamente Mondino, se non fosse che Tyler, seduto su uno sgabello, dopo un inizio canonico, mostra di avere un misterioso animaletto sulla mano che fa fuori in un boccone. Sull’intermezzo strumentale il rapper vomita e dissacra palesemente il teatro della performance, laddove il registro visivo non perde eleganza e non si adegua stilisticamente alla svolta: l’ingestione sembra provocare una forma di possessione, perché gli occhi del cantante si dilatano visibilmente, la postura si irrigidisce; un’emorragia dal naso precede l’apparizione di un cappio:Tyler sale sullo sgabello e si impicca. Il set è definitivamente profanato, la messa in scena del proprio malessere, supportata dalle liriche autobiografiche (basti il geniale incipit: I’m a fuckin’ walkin’ paradox, no I’m not), giunge al suo culmine.
Sommersi da una realtà che è sempre più sconcertante, la posta della provocazione per immagini inevitabilmente si alza: non cadremo certo nel tranello di una considerazione etica (quella è parte di un discorso artistico e concettuale da valutarsi – e non è una contraddizione – esteticamente, un discorso che, come si diceva il mese scorso, si completa, in casi come questi, con la fruizione/reazione del pubblico) né dell’incenso automatico, ma occorre tenere conto nel giudizio, senza esaurirlo in ciò, che quanto più si rimane disorientati da video come questi, tanto più i creator-i dimostrano di aver raggiunto il loro obiettivo, sinceri o calcolatori che siano. Fuckin’ swag. Voto: 7
Ritorno eclatante per Britney Spears che per Hold it against me si affida alle sapienti mani di Jonas Åkerlund. Quanto Madonna sia stata non solo un faro musicale, una stella fissa del firmamento-showbiz degli ultimi tre decenni, un fenomeno di costume che non ha precedenti, una voce imprescindibile del Vocabolario Pop, ma anche una gestrice all’avanguardia della propria immagine lo si comprende guardando un video come questo che, semplicemente, non esisterebbe se la Ciccone non avesse fatto quello che ha fatto: l’orma impressa da Madonna e le sue scelte di campo sono diventate un modello da ricalcare per le ultime dive (la Spears, appunto, ma anche Lady Gaga, che su quel solco cammina, devota).
Una Britney molto madonnesca, quindi, a cominciare dalla rappresentazione del proprio mito nel suo farsi, con l’incipit che mostra il set di ripresa, lo svelamento del dispositivo, la donna che viene vestita e diventa divina; fu appunto con Madonna che il glamour venne ripensato in questa duplice chiave: da un lato la sua esibizione ed enfatizzazione iconizzavano la star, dall’altro la creazione esibita di esso (le fasi di preparazione, il trucco, la permanenza su un set dichiarato) decretavano il riconoscimento “umano” dell’artista; a Madonna rimanda anche la miriade di schermi che ripropongono pezzi di passato; il confronto-scontro con un’altra Britney (cigno nero-cigno bianco: vedasi Die another day diretto da Traktor), quella di un passato prossimo – al disastro (ancora la personalità multipla della Ciccone che ogni volta metteva in scena, come Bowie, un nuovo personaggio, una nuova emanazione di sé, anche contradditoria rispetto alle precedenti) -; il parossismo mediatico che eleva la Spears ad oggetto di attenzione ossessiva (la miriade di microfoni che la circondano); l’evidente product placement (che, al di là del fine commerciale, suona autoreferenzialmente come ulteriore rappresentazione della stessa cantante quale prodotto in vendita).
Tra citazioni del Rocky Horror (la bocca su fondo nero), cristalli di Swarovski come piovesse, abiti griffati, Jonas Åkerlund, regista tra i più importanti, più furbo (Porcelain di Moby) che geniale (lo storico Smake my bitch up dei Prodigy) e che della bibbia dello star system è una sorta di privilegiato profeta (ha diretto Madonna, la Aguilera, due video “consumati” di questi ultimi anni, Paparazzi e Telephone per Lady Gaga) e che negli ultimi tempi sembra puntare su produzioni molto vistose, mette in piedi uno dei suoi baracconi più imponenti e sofisticati: la star (letteralmente: nel prologo una sorta di meteorite collide con la terra, determinando questo popò di show) è al centro di un gabbione multimediatico, in cui la Spears si eleva come creatura sponsale che di questa energia comunicativa sembra nutrirsi (l’attacco delle flebo alle mani); lo scontro con la Britney più scomoda e autodistruttiva si chiude con una sorta di palingenesi: la diva, di nuovo in forma, in discinta pelle nera, al centro di una coreografia cadenzatissima, su un palco pieno di lustrini, fuochi e fiamme, incarna la vittoria sui fantasmi del passato, la riaffermazione e il riscatto, insomma una nuova discesa in pista che sa di rivincita: il futuro la aspetta ancora, fiducioso (il laconico punto interrogativo finale lascia aperti gli scenari). Una clip che non delude le attese spasmodiche e in cui gli eccessi grandiosi di Jonas sopperiscono alla molesta lagnosità dell’ex lolita. Voto: 6.5
Nabil, altro perno della videomusica attuale, nell’ultimo lavoro, Patience, costruisce un sontuoso monumento all’africanità, un poema visivo, di respiro epico, un inno black di pace e rabbia che si sposa al grande brano del principe dell’hip hop (Nasir Jones) e dell’erede al soglio del reggae (Damian Marley) che ospita un campione di Sabali di Amadou & Mariam: attraverso un’iconografia semplice e di grande effetto, con indulgente ricorso a immagini speculari e a raffinati effetti speciali, solo sfiorando il kitsch ma giammai inciampandoci, Nabil firma un video toccante e di potente suggestione, forse il suo migliore ad oggi. Voto: 7.5
Su un piano molto simile, anche se in un contesto diverso, quello puramente descrittivo (non c’è alcuno spazio per i musicisti in video) della storia americana che viene tematicamente ripercorsa in Illmerica di Wolfgang Gartner a partire dalla Mayflower fino ad arrivare ad Obama: è un’animazione splendidamente costruita da Ryan McNamara, in cui i riferimenti storici e i livelli iconografici sorprendono per varietà e ricchezza, per il modo in cui vengono strutturati e miscelati, per il punto di vista anti imperalista attraverso il quale vanno a rappresentare la malattia di una terra (ill America, appunto) che prolifera mediante due motori principi: il denaro e la violenza. L’assenza di riferimenti all’Undici Settembre e la finale attenzione per i mezzi di controllo sulla popolazione, che rimbalza fino ai satelliti, la dicono lunga. Voto: 7.5
I Radiohead affidano il loro ritorno alle esperte mani di Garth Jennings, regista sempre parco sul fronte delle clip (una all’anno, in media – l’ultima: Cousins per i Vampire Weekend -): nel teatro vuoto, in un denso bianco e nero, Thom Yorke balla-da-solo sulle note di Lotus Flower [foto] supportato dalla coreografia di Mr. Random Dance, il grande Wayne McGregor. Subito cultizzato, citato, parodiato: segnali chiari di un colpo ben assestato.
The Ballad Of Moose Bruce dei Born Ruffians, diretto da Brian Hamelin e Christian Kelley, è una brevissima sequenza di un incontro di wrestling in splendido ralenti e raffinato bianco e nero, ripresa con molteplici camere.
Face of the planet dei Subs, diretto da Cédric Blaisbois, pedina con macchina a mano un ragazzino in metropolitana: il ballo che improvvisa nella carrozza diventa molesto per una signora che avverte i poliziotti: il ragazzino, fermato, riuscirà a fuggire. Molto, molto carino;
At home – Crystal Fighters, diretto da Ferry Gouw;
Satellite – Kills, diretto da Sophie Muller;
The devil’s hand – Pentatones, diretto da Kristin Herziger & Dietmar Thal;
When I’m small – Phantogram, diretto da Isaac Ravishankara;
Television – Joy Division, nostalgica Playmobil-rievocazione;
Fireworks – Wolfram feat. Hercules & Love Affair, diretto dallo stesso Wolfram: video concettualissimo, giocato come un’improvvisazione su un filmato di You Tube postato da un fan per il pezzo in questione. Quando si dice abbattere le barriere.
All Of The Lights di Kanye West ft. Rihanna, Kid Cudi, diretto da Hype Williams: pare che sia dannoso per i fotosensibili (è stato aggiunto un avviso che precede la visione); la cosa davvero certa è l’ispirazione ai titoli di Enter the void di Gaspar Noé, di recente definiti da Tarantino “I più belli dell’anno. Forse i più belli del decennio. Tra i più belli della storia del cinema”.
Sunday – Hurts, diretto da W.I.Z. [foto], registro cinematografico, un mélo visionario e glaciale, nello stile fantasioso e curatissimo proprio del regista. Preferibile il director’s cut che presenta sostanziali differenze rispetto alla versione commerciale;
My name is Trouble – Karen Ann, diretto da Benjamin Seroussi, tanto per ribadire la centralità del canone madonnaro;
Mangekyou No Taiyou – SNA-FU Grand Désordre Orchestre, diretto da SNA-FU Grand Désordre Orchestra & Thornaad Catapulta, lavoro di montaggio su telefilm e cartoni giapponesi;
Lighthouse dei New Villagers, diretto da Ben Dickinson, Matthew Barney a pallissima;
Together – Hervé (col riconoscibile sample di Come together dei Primal Scream), diretto da StarWorks.TV: partendo da normali fotografie di gente comune il collettivo ne modifica singoli elementi, conferisce movimento alle figure, ne inverte i contenuti, con un crescendo sempre più corrosivo e scorretto. Impossibile resistere.
Need you now – Cut copy, diretto da Keith Schofield: consueto sviamento schofieldiano, immagini di deviante nitore in cui la rappresentazione dello sport diventa celebrazione confusionaria e disorientante che rimanda a un disordine umano ben più ampio e significativo. Splendido, come sempre.
Alexander Brown (il giovane regista-designer-fotografo, autore di No kind words ed Empty vessels dei Maccabees, tanto per intenderci) dirige il secondo video tratto dall’album rivelazione di James Blake (di cui ha curato anche la copertina); The Wilhelm scream gioca tutto sull’atmosfera e sullo spazio vuoto, a cromia cangiante, che ne costitisce il contesto; il dato onirico del testo viene tradotto in sovrapposizioni, sfocature, inserti sovraesposti, immagini fulminee e rarefatte che intersecano quella principale (l’artista che canta guardando in camera): scariche visionarie in sincrono che evocano senza definire. Il discorso è interpretativo a ogni livello – testuale, performativo, visivo – e, come per il De Thurah di Limit to your love l’equilibrio tra immagini e musica semplicemente perfetto. C’è una strategia precisa: puntare su video intensi, di grande qualità, che si imprimano nella memoria dello spettatore, ma in cui il brano venga valorizzato e mai adombrato dalle immagini. James Blake, ventun anni, non sbaglia nulla. Voto: 7.5
Luca Pacilio
Ci viene in mente il nome di Milosh. Il suo disco d’esordio – You make me feel (2004) – coniugava la semifredda elettronica (quasi) contemporanea (IDM, Two Step) con una voce soul/r’n’b molto “calda” e “suadente” (una coppia di aggettivi il cui utilizzo avrà esiziali ripercussioni sul mio già malandato karma). Quello del canadese era un disco molto gradevole, che alternava pezzi di ottima fattura a qualche filler un po’ anonimo, ma che si rivelava un’ipotesi di easy listening maturo, moderno e intelligente. Con James Blake si bazzicano territori concettualmente omologhi ma dalle ambizioni – e dai risultati – di alt(r)o spessore. Anche qui, infatti, ritroviamo un sapiente mix tra elementi sonori/percussivi dell’hic et nunc musicale (Dubstep, ipotesi di Chill Out futuristico) e una voce “importante” e spesso Antony-ana, che tiene unito e insieme caratterizza indelebilmente il mosaico, ma c’è anche, non troppo sotteso, un portato teorico/riflessivo dal quale è impossibile prescindere.
Quella di Blake col puro piacere dell’ascolto è una relazione volutamente pericolosa, che sembra sabotare scientificamente le aspettative del fruitore. Con la sola parziale eccezione della cover di Feist – Limit to your love – le “canzoni” che compongono l’album sono tutte percorse in misura più o meno carsica da una multiforme inquietudine di fondo, da un sistematico inquinamento dell’ascolto che assume ora le sembianze di glitch insistiti e sovraesposti (Why don’t you call me), ora di code che, incupendo il mood e manipolando i suoni, disattendono le premesse (Wilhelms Scream), ora di un Vocoder e di un Autotune solo apparentemente fuori luogo (cfr. l’ultimo Sufjan Stevens). Il risultato è un disco insieme intelligibile e obliquo, immediato e complesso, umano e glaciale, strutturalmente molto ponderato (la fuga nell’informale e nel rarefatto sembra seguire un percorso preciso e progressivo, di traccia in traccia) e che, soprattutto, assume col tempo una sua fisionomia personale, precisa, coesa, tanto da richiedere – quasi “esigere” – che ogni ascolto sia completo: dalla splendida Unluck al gospel retroavveniristico di Measurements, senza soluzione di continuità. Difficile stabilire se sarà questo IL sound of 2011. Certo è un sound che ci piace. Molto.
Gianluca Pelleschi