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Philippe Garrel

Il programma dell’ottava edizione del LFF.

Sempre al di qua o al di là della venerazione critica Philippe Garrel, sempre leggermente, ispidamente distante dal dogmatismo soffice e adulatorio dei suoi cantori. Al di qua per la disarmante semplicità con cui demolisce ogni tentativo di celebrazione della sua opera o ridimensiona ogni esaltazione del cinema in sé. Basti pensare al cocente rimprovero d’ingenuità indirizzato dal regista stesso a Le lit de la vierge o alla quintessenziale definizione di cinema come maniera di sopravvivere: evidentemente Garrel non ama l’autoindulgenza né le mistificazioni. E al di là per la febbrile radicalità, una precisione delirante verrebbe da dire, delle sue enunciazioni di poetica: dichiarazioni spinte a un tale grado di incandescenza da rasentare il vaneggiamento inconcepibile anche per l’esegeta più farneticante (“Bisogna arrivare a una fisionomia del vuoto: parlare di nulla e allo stesso tempo di tutto”). Come scrivere dunque del cinema di Garrel senza nutrire ridicole pretese di esattezza ed esaustività? Con la consapevolezza della fragilità, non vi è dubbio, ma una fragilità in fondo spudorata e irriducibile, simile a quella delle sue immagini. Immagini che, pelati gli esseri fino al nocciolo, si offrono in tutta la loro sfrontata, scandalosa vulnerabilità. Non più sole immagini: rivelazioni [2].

[1] Ove non diversamente specificato, i brani citati sono tratti dal volume “Philippe Garrel” a cura di Stefano Della Casa e Roberto Turigliatto (Lindau, Torino, 1994).

[2] Per ragioni contingenti, non si fa qui riferimento ai due cortometraggi d’esordio “Les enfants désaccordés” (1964) e “Droit de visite” (1965) né ai due medio-lungometraggi immediatamente successivi “Anémone” (1966) e “Marie pour mémoire” (1967), quest’ultimo vincitore, non senza polemiche e sonore disapprovazioni, del Grand Prix al Festival di Hyères 1968.

Le révélateur ha a che fare con l’origine, fin dal titolo: “film embrionale e fondatore” scrive Adriano Aprà. Girato in Germania in una settimana tra la fine di maggio e il giugno 1968. Realizzato con mezzi irrisori. Banda sonora completamente vergine. Che cosa rivela? Che cosa si rivela in questi 62’ muti di un bianco e nero generativo? Il processo di formazione dell’immagine sulla pellicola, la cinepresa come reagente, un bambino e i suoi genitori (Bernadette Lafont e Laurent Terzieff), corpi che vengono letteralmente alla luce (grazie a pile, lampade tascabili: sorgenti bianche). “Le révélateur è un film deliberatamente onirico che gira attorno a ciò che la psicoanalisi definisce la scena primitiva (…)”. Film del significante non banalmente inteso come catena di immagini, ma come materialità filmica in qualche misura anteriore all’investimento linguistico, in qualche modo riavvicinata al suo potere vibrazionale (la vibrazione dei fotogrammi, la condensazione chimica dei sali d’argento, l’attrazione/repulsione di corpi e luoghi). Si sprigionano risonanze psichiche inattese, l’immagine si candida a operatore di passaggio. Provenienti da un luogo dal quale il linguaggio è stato sfrattato, queste immagini non ci parlano, ci magnetizzano.
Ci vuole fegato più che incoscienza per spingersi in questi luoghi: l’età non conta (sarebbe un’idiozia tirare in ballo i venti anni di Garrel nel maggio ’68), contano la lucidità e l’abbandono. “Ho tentato di avvicinarmi al tipo di visualizzazione che si ha del sogno, vale a dire che non si reagisce intellettualmente, che si è persi in una specie di labirinto che si percorre”. L’impressione di realtà, precipitato illusionistico della macchina ideologica, cede il passo all’impressione d’irrealtà provocata da un bianco e nero binario, decisivo. Fuori campo s’indovina una guerra, in campo è tutto uno struggimento, un continuo fuggire, un ininterrotto anelito di tenerezza impossibile, di armonia tormentata da qualcosa che la rende intrattenibile. Elettrica, transitiva, la cinepresa si fa sentire non come entità oggettiva e astratta, ma come pura energia fisica, impulso medianico: talvolta si ha l’impressione di assistere a un remake di Germania anno zero girato da Franz Anton Mesmer. Non è più cinema, è dinamica dei fluidi, spiritismo, profezia: “tutto è fatto perché l’operazione della registrazione cinematografica ritrovi la sua forza originale e magica, quella appunto di rivelatore” (Bernard Eisenschitz). Ecco perché questo mistero a 18 fotogrammi al secondo (la frequenza del muto, inevitabilmente) continua ad affliggerci e stregarci nonostante i suoi quarant’anni suonati, nonostante riecheggi una stagione che inizia a fossilizzarsi in leggenda.
Immediatamente dopo Le révélateur, film genetico e “veramente costituente” (Deleuze), si materializza La concentration (girato nel giugno 1968 in sole 72 ore): jeu de massacre tra un uomo e una donna (Jean-Pierre Léaud e Zozou) incapsulati in un set a tenuta stagna (due stanze termicamente contrapposte, la “camera calda” e la “camera fredda”, e tra le due una zona neutra di passaggio, il letto). Forme di vita trattate alla stregua di cavie da laboratorio sottoposte all’esperimento-cinema: “si mettono dei topi in gabbia e si sperimenta su di loro un nuovo siero” (Garrel). Con Le lit de la vierge (1969), film clementemente e insolentemente cristico, fa infine la sua comparsa la figura del salvatore: ecce homo. La questione della costituzione umana, del suo essere gettato nel mondo senza un perché e senza difese, trova una prima spinosa risposta in un film in cui uno sgomento Jésus (Clémenti) si aggira senza nesso e ragione in un terrificante teatro di guerra (leggi: la terra tutta), rimproverando a gran voce il padre celeste per averlo fatto incarnare ed esortandolo a scendere per vedere in quale razza di posto lo abbia scaraventato (“Papa, descends un peu pour voir le merdier!”).
Se Le révélateur concepisce cinematograficamente l’essere umano e Le lit de la vierge lo incarna fisicamente, La cicatrice intérieure (1972) lo colloca nel tempo, nella dimensione ancestrale e arcaica della storia: una storia intimamente garrelliana, nutrita di autobiografia, intrisa di onirismo e circoscritta nell’orizzonte dell’esoterismo (“Il film che sto per fare adesso è una tragedia musicale, esoterica, veramente esoterica, che attinge al tutto: tutta la vecchia cultura senza mai fermarsi su alcun punto della vecchia cultura, ma la direzione è veramente la vecchia cultura”). Nico e lo stesso Garrel nel deserto della Death Valley (non distante dai luoghi del finale di Rapacità di Stroheim), Pierre Clémenti e il figlio Balthazar negli incandescenti ghiacciai dell’Islanda: antichissimo e avveniristico, di una perentorietà che lo sottrae alla caducità delle avanguardie, La cicatrice intérieure traccia i segni di un’umanità primordiale, di una pratica figurativa primitiva. “Si tratta di un enigma disperante, di una risibile crudeltà, che si pone all’aurora dei tempi. Questo enigma, non si tratta veramente di risolverlo. Ma (…) ci propone di vivere nella sua profondità” [3]: è così che Bataille parla delle pitture nelle caverne di Lascaux. Ed è così che le immagini della Cicatrice chiedono di essere avvicinate, assecondandone la cadenza iniziatica, concedendosi alla loro solenne generosità: “Essere aperti, per ritrovarsi d’accordo alla fine dello spettacolo, graziati miracolosamente” (Jean Louis Bory).

[3] Georges Bataille, “Le lacrime di Eros”, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p.37.

Non più film del significante costitutivo come Le révélateur, dunque, ma film di segni primari: immagini e suoni elementari depositari di una ricchezza semantica potenzialmente illimitata. Segni essenziali e infinitamente ricchi, permeati di risonanze magiche associate alla vita: “La cicatrice intérieure è un film sulla vita, la rinascita degli elementi primari” (Pierre Clémenti). Come le pitture di Lascaux, queste immagini si situano sì agli albori della storia, ma sono già completamente iscritte nel mondo, in una temporalità progressiva. In questo senso la cicatrice del titolo non è interiore poiché interna al soggetto, ma perché incisa nella carne del mondo. Non è fortuito che i due bambini presenti nel film spuntino letteralmente dalla terra (in una grotta il primo, sul ghiaccio il secondo) come generati, espressi dagli elementi stessi: “improvvisamente è tutta l’Umanità, tutta la Terra che parla – La Terra nel senso antico di Madre” (Henri Langlois). La tensione archetipica delle situazioni (l’abbandono, la partenza, il guerriero che sbarca sull’isola, il dono) si salda all’assoluta essenzialità del linguaggio. Non vi sono che piani sequenza nella Cicatrice intérieure. E stilizzatissimi carrelli circolari, lunghissimi accompagnamenti laterali, lenti zoom in avanti e all’indietro sui corpi incastonati nel paesaggio. Una sola ripresa per inquadratura, ché nel vivo fluire del tempo storico non si danno prove o ripetizioni, soltanto gesti cinematografici esemplari e definitivi. La camera-cœur, adesso e per sempre, si consacra al tempo in un atto semplice di fedeltà: “il cuore del tempo, tempo del cadrage, tempo dell’epifania” (Garrel).
Dopo La cicatrice intérieure l’immaginario garrelliano è così proiettato nel mondo che può permettersi di rimuovere ogni traccia apparente di narrazione o illusione referenziale. È il periodo di Athanor (1972) e Le berceau de cristal (1976), i due capitoli alchemico-lirici che chiudono la trilogia iniziata con La cicatrice: “C’è un’ipotesi” (l’antifascismo), una tesi (La cicatrice intérieure), un’antitesi (Athanor), una sintesi (Le berceau de cristal), è un cinema di coppia”. Ed è il periodo della ritrattistica intima e abissale (intimità e voragine sono del resto binomio inscindibile in Garrel) di Les hautes solitudes (1974), Un ange passe (1975) e Le bleu des origines (1978): ritratti di implacabile tenerezza in cui la tenuta delle inquadrature, la loro eccedente insistenza perfora ogni difesa personale, lasciando indovinare lo spaventoso baratro che si cela dietro/dentro i soggetti filmati, cinematograficamente spellati vivi. Un’eccedenza che sgretola il muro della rappresentazione asservita all’idea di fotogenia o studio psicologico per farsi ‘filmitudine’, sentimento di pura e semplice cinematograficità. Non sembrerà vezzo passatista, quindi, che Le bleu des origines, film conclusivo dell’intero periodo lirico-ritrattistico, sia integralmente girato con una macchina a manovella: il massimo di intimità coincide col minimo di complicazione tecnica. Unica condizione: pellicola 35mm, formato Lumière.
Considerare questa stagione come ripiegamento ombelicale o ritiro eburneo sarebbe un autentico malinteso: è qui che Garrel, fotogramma dopo fotogramma, fa del cinema un dispositivo di assorbimento. Il suo cinema acquisisce una proprietà che forse non spicca per appariscenza ma che si rivela di una centralità strutturante: qui Garrel conquista la temporalità per così dire totale delle inquadrature, il superamento del rapporto tra durata effettiva e tempo di lettura in favore dell’istante cinematografico puro, del segno filmico immanente. Detto più chiaramente, il suo cinema trova la durata assoluta, quella in cui i fotogrammi catturano/sprigionano la malinconia del tempo che passa. Anziché sfruttare il tempo per impacchettare gli eventi rappresentati, la cinepresa di Garrel lascia che questi si depositino nel tessuto cronologico dell’inquadratura secondo una durata squisitamente cinematografica, armonizzando il loro svolgimento allo scorrimento dei fotogrammi, accordando il loro sviluppo al dipanarsi della temporalità filmica. Questi piani sono letteralmente indipendenti, autosufficienti. Vivono di vita propria. È il corso del tempo a costituirne l’evento principale, i soggetti filmati sono luoghi del suo passaggio, corpi che recano in sé la contraddizione fondante tra esistenza e dissolvimento.
“Con L’enfant secret termina dunque il periodo «Mallarmé»”, osserva Alain Philippon. Dopo l’officina alchemica satura di vapori oppiacei e lisergici, Garrel approda a un cinema quasi neoclassico. ‘Quasi’ poiché asperità narrative e intermittenze metacinematografiche dimorano ancora in un film che si adagia in forme progressivamente leggibili e in partizioni scandite da didascalie. La follia invocata nel finale di Marie pour mémoire – “Que la folie vienne vite!” – e vissuta in prima persona durante la lavorazione di La cicatrice intérieure (ricovero coatto in manicomio a Roma, letto di contenzione ed elettroshock) diviene materia di rappresentazione: adesso si può riprendere nel film, ridimensionarla cinematograficamente. La vita può finalmente filtrare nel cinema senza distorsioni traumatiche e senza perdere la sua straziante intensità. Queste forme neoclassicheggianti sono più accoglienti e flessibili, meno ossessivamente sorvegliate, si rendono disponibili a una rielaborazione meno drastica e amnesica del vissuto: “Questa volta cominciavo a ritrovare la memoria”, dice Jean-Baptiste, inconfondibile alter ego di Garrel mediato da un modello bressoniano (Henri de Maublanc). Ed è proprio in virtù di questa conciliazione tra materia biografica e composizione narrativa che il suo cinema acquista una scioltezza inedita, una libertà al contempo leggera e lancinante.
Anche se quello del filmare resta un atto violento e ineluttabilmente distruttivo, il cinema assume una funzione compensatoria, addirittura utilitaristica: “Cerco che il film sia utile per me. […] È molto distruttivo il tournage, dunque provo comunque, poiché consuma molte cose per sempre, che serva a qualcos’altro (…), che compensi” [4]. Ecco allora insinuarsi il dubbio paranoico dell’appropriazione/esibizione indebita di situazioni e affezioni che non si sarebbero dovute mostrare: “I pensieri, gli sguardi, le parole d’amore e i segreti conservano il loro valore quando si esibiscono così, davanti agli altri?” chiede Jean-Baptiste a Elie, inequivocabile doppio di Nico affidato a un altro modello bressoniano (Anne Wiazemski). Dubbio paranoico ma fertile, ché i mascheramenti, le ritrosie e le reticenze, combinate all’invitante accoglienza dell’arrangiamento classicheggiante, generano una tensione estrema tra confessione impudica e compostezza filmica [5]. Tensione che Jean Douchet, ponendo l’accento sull’insicurezza latente delle immagini garrelliane, descrive in questi termini: “Garrel trasmette alla pellicola una sensazione profonda di solitudine; la pellicola appare nei suoi film come un supporto insicuro attraverso il quale l’immagine rischia di scomparire, trasformarsi o dileguarsi”. Malgrado questa insicurezza e tuttavia inscindibile da essa, la pellicola di Garrel registra non solo e non tanto “la morte all’opera” (altra espressione cara a Douchet), quanto il ‘tempo all’opera’, quello che trapassa i soggetti filmati e si adagia sulla pellicola: “Il tempo passa a una velocità incredibile, e fare un film significa semplicemente pronunciare una frase molto lentamente, perché rimanga…”.

[4] Così Garrel nel documentario-intervista “Philippe Garrel – Portrait d’un artiste” (1998) di Françoise Etchegaray.

[5] È stata Annette Wademant, sceneggiatrice della vecchia scuola (collaboratrice, tra gli altri, di Jacques Becker e Max Ophüls) ad averlo aiutato a superare questi timori, supervisionando il canovaccio drammatico ed emendandolo dai passaggi criptici e provocatori: “Era rimasta molto sconcertata dai miei ultimi film, mentre le piaceva molto il mio primo periodo. Mi ha dunque spinto ad abbandonare il mio puritanesimo e l’atteggiamento da artista, che si erano cristallizzati in un certo modo di fare. E mi ha aiutato molto a non avere paura di esprimere delle cose che appartenevano alla mia vita privata”.
E al tempo di un soggetto familiarmente cinematografico, il padre Maurice (già filmato in Les enfants désaccordés, Droit de visite, Anémone, Marie pour mémoire e soprattutto in Un ange passe), è dedicato Liberté, la nuit (1983), primo film sceneggiato in modo tendenzialmente canonico da Garrel. “È un po’ il mio cinema di serie B”, affermerà Garrel non senza un pizzico di civetteria. Il gioco di incastri e fusioni tra bozzolo familiare, ispirazione onirica e trasposizione filmica raggiunge un sorprendente equilibrio. Il vissuto resistenziale del padre e della madre (partigiano del Vercors il primo, staffetta nella Resistenza la seconda: Liberté) scivola nell’oscurità dell’inconscio (alla base del film ci sono due sogni di Garrel: la nuit). Poi si disloca spazialmente e cronologicamente dal Vercors alla guerra d’Algeria (“Ho spostato i fatti durante la guerra algerina per rendere omaggio a quell’esigua minoranza di artisti, di intellettuali che si ergono contro l’ingiustizia”) e infine si condensa in altri corpi (l’alter ego della madre è affidato a Emmanuelle Riva, la famiglia di marionettisti rispecchia quella del padrino Alain Recoing). “La fedeltà agli altri è il solo movimento dell’anima”, diceva tra sé e sé Jean-Baptiste in L’enfant secret e in Liberté, la nuit questa fedeltà assume le movenze dell’elegia sentimentale contrappuntata dal basso continuo della lotta clandestina (e del pianoforte di Faton Cahen). Con una sobrietà che incalza e accarezza al tempo stesso i soggetti filmati: “l’amore scandisce le ore morte…”.
Di fatto è in questo film che il suo cinema arriva davvero a distendersi, à se décontracter, e a fare dei fotogrammi una prigione morbida del tempo. Morbida e infrangibile. Già, perché la proprietà di resistenza all’impatto e alla deformazione è la qualità che più colpisce in Liberté, la nuit e nelle pellicole successive: le sequenze sopportano urti drammatici, sovraccarichi emozionali e agguati tragici senza frantumarsi, le inquadrature tollerano sovraesposizioni, compressioni ed estensioni senza spaccarsi. Tutt’al più il film termina per autocombustione, o meglio si smaterializza per esaurimento della finzione. Nel finale, l’esecuzione di Jean sul molo si dilata in un prolungatissimo ralenti che si raggela in freeze frame: si ha l’impressione che quest’immagine eternata possa continuare all’infinito, è la finzione che viene a mancare. Persino le imperfezioni pellicolari (macchie biancastre, alterazioni dei contrasti, spuntinature), fino a ora tracce fisiche di un fiero pauperismo produttivo, vengono impercettibilmente riassorbite nel palpitare del discorso. Non più segni graffianti di un fare nonostante tutto e tutti, ma di un dire fisicamente suscettibile di variazioni di timbro. È che la pellicola è diventata a pieno titolo superficie sensibile: più ci si avvicina al cuore delle cose, più questa si impressiona (inquadrato in primissimo piano, a pellicola sgranatissima, Garrel padre si rivolge direttamente alla cinepresa: “Quando de Gaulle è venuto e ci ha salvato, non sapevo che veniva con questa nuova teoria scientifica della tortura”).
Nella sua spiccia semplicità, Rue Fontaine (1984), episodio del film Paris vu par… vingt ans après, nulla toglie e nulla aggiunge al corpus garrelliano, proseguendo l’ormai consolidato protocollo biografico all’insegna della mimetizzazione sfalsata: Garrel assegna la parte di se stesso a Jean-Pierre Léaud e quella di Jean Seberg a Christine Boisson, avocando a sé il ruolo di amico comune che ne favorisce l’incontro. In Elle a passé tant d’heures sous les sunlights… (1985) la suscettibilità della pellicola torna invece a farsi sentire. È questo il film che più si avvicina al magistero di Godard, nella quasi impossibile impresa di aprire la rappresentazione all’astratto, salvaguardando tuttavia il peso emotivo degli eventi. A tenere banco è l’escandescenza del mélo proprio come in Liberté, la nuit, ma stavolta la lotta si svolge tra i differenti gradi della rappresentazione, tra i vari film che si vanno facendo all’interno del film (compreso quello che stiamo vedendo). Eppure il gioco in fondo facile della mise en abîme è ostacolato dalla dispersione volontaristicamente incontrollata di un film che perde pezzi accumulandone. Allora, tra bianchi esclamativi e neri interrogativi, Elle a passé tant d’heures sous les sunlights… mette in scena l’artificio stesso della messa in scena, racconta il dolente parto della finzione nella sua arbitrarietà e nella sua inarrestabile prepotenza. Una sorta di Le révélateur venti anni dopo, non più concentrato sul concepimento dell’homo cinematograficus, ma confuso e visceralmente stravolto dalla natività della finzione [6].

[6] “Solo in Sunlights, che è anche una sorta di bilancio e di sintesi dell’esperienza passata, i tre livelli del reale, dell‘immaginario – cioè degli elementi «inventati», sceneggiati – e del sogno si intrecciano e si confondono ancora” (Aprà).

I tormentati contorcimenti di Sunlights (le cui immagini finali mostrano un Garrel sofferente, piegato in due da dolori al ventre) preannunciano Les baisers de secours, film-risarcimento che riconcilia definitivamente col libero fluire della narrazione. “Non è una storia che traccia una parabola, ma una narrazione alla deriva, che si scioglie nella vita di tutti i giorni”, asserisce Garrel. Che ne scrive il soggetto per risarcire la moglie Brigitte Sy dello scambio di identità avvenuto in Sunlights, dove era stata Mireille Perrier a interpretarla sotto mentite spoglie (“Mia moglie Brigitte era stata molto triste quando avevo girato Sunlights perché non avevo previsto nessuna parte per lei, mentre nel film c’era un personaggio che le assomigliava, interpretato però da un’altra attrice. È a partire da questa situazione che ho immaginato la sceneggiatura di Les baisers de secours, in modo da darle questa volta un ruolo importante”). Il soggetto viene poi arricchito dai dialoghi simpatetici di Marc Cholodenko, d’ora in poi dialoghista e cosceneggiatore fisso di Garrel. “Les baisers de secours è un film dopo la catastrofe (…); è un film di ri-nascita”, osserva Douchet. E questa catastrofe è senza dubbio l’avvento della finzione, un’accettazione di una drammaturgia un po’ sgualcita che, pur allontanandosi dal purismo cinematografico degli esordi (e in qualche modo tradendolo), porta alle estreme conseguenze la fiducia nel cinema come habitat ideale: “Più si va avanti nella vita, meno si ha bisogno di fare la regia, e nello stesso tempo più ci si dissolve e più ci si avvicina al proprio progetto iniziale, fare la regia”.
Diversamente dai tempi di La cicatrice intérieure, Athanor e Le berceau de cristal non ci sono più tesi, antitesi e sintesi da sviluppare esteticamente, ma solo rapporti organici tra cinema e vita: “Il lavoro di regista mi interessa come progetto su una vita intera”. La dialettica è stata rimpiazzata dal discorso amoroso, un discorso discontinuo, costellato di silenzi e soprattutto distante tanto dall’imitazione diretta quanto dalla retorica sentenziosa (anche per merito dei dialoghi di Cholodenko, equivalenti onirici – parafrasando Garrel – dei dialoghi correnti). In fin dei conti si tratta di un discorso che dichiara apertamente la propria impotenza a rappresentare, sia nella scrittura letteraria che in quella cinematografica, la sua materia d’elezione: “L’amore è tutto quello che non si può dire”, sibila Johanna Ter Steege a Yann Collette in J’entends plus la guitare (1991). Qualcosa di sostanzialmente indicibile e infilmabile, ma comunque evocabile a partire da ciò che la sua assenza significa.
Dunque J’entends plus la guitare, film di assenze se mai ve ne è stato uno: la chitarra di cui non si sente più il suono sta per la giovinezza perduta e in parte rinnegata (“Come tutti, anch’io tradisco la mia gioventù. Quando si raggiunge la maturità si fa sempre ciò che si odiava quando si era giovani”), Marianne/Johanna Ter Steege sta ancora una volta per Nico (“La vera ragione del film è la morte di Nico, avvenuta poco prima delle riprese di Les baisers de secours. Avevo urgenza di fare un film dedicato a Nico. Ma questo non me l’ha restituita viva”) e l’ombra sinistra della perdita grava sull’intera pellicola (“Il cinema non ci restituisce le persone di cui parliamo. Produce lo stesso smarrimento che si prova svegliandosi da un sogno. Il cinema non può restituirci né la natura delle cose né gli esseri”). Solo che, a quest’altezza cronologica, la fiducia di Garrel nelle proprietà compensatorie del cinema è così profonda e consolidata da spingerlo a elaborare filmicamente il lutto: “Siccome ero ossessionato dalla morte di Nico, mi sono detto che era meglio che ci facessi un film sopra, per provare a fissare la mia tristezza nel tempo”.
Il mélo offre le sue carni a una macchina da presa che le divora internamente, il trito schema sentimentale si raddoppia (la coppia Gérard/Marianne si specchia in quella Martin/Lolla), si moltiplica all’infinito (Gérard//Linda/Aline/Adrienne), svuotandosi di senso come le dichiarazioni d’amore pronunciate nel film: lettere morte (quelle di Gérard a Marianne) o viete formule (quelle di Aline a Gérard). Di questa pellicola frontalmente cimiteriale (la visita alla tomba di Marianne/Nico in Germania), attraversata da morti viventi (il confronto tra Aline e Marianne è l’incontro tra Brigitte Sy e la reincarnazione di Nico) e sigillata dall’irrecuperabilità del passato (“Siamo stati e non siamo più”, sussurra crudele Marianne ad Aline) si può dire banalmente che corteggia la morte per seppellire un sentimento ossessivo. Ma si può dire anche l’esatto contrario, ovvero che annette il sentimento del lutto nel territorio di un cinema sempre più incurante dei tabù estetici e della proprietà privata (“Più vi sono persone sul set che offrono un pezzo della loro vita, più ci si avvicina alla vera natura del cinema, vale a dire un’arte in comune”). Un cinema che da La naissance de l’amour (1993) a Les amants réguliers (2005) passando per Le cœur fantôme (1996), Le vent de la nuit (1999) e Sauvage innocence (2001) continua a superare indisturbato le frontiere tra vita e rappresentazione per inseguire, giusto il tempo dell’esistenza, il bluastro chiarore dell’aurora, Le bleu des origines.
Ed ecco, dunque, che questo sentimento funereo si trasforma, letteralmente e nuovamente, in rivolgimento all’origine, nello scandaglio di un passato, nella messa in scena di quel che era per ricordare quel che insiste ora, quel che all’interno resiste, mentre l’intorno si modifica, mentre la contemporaneità inabissa nell’oblio immagini e immaginazioni lontane. E se Les amants réguliers è un ritorno alla propria madreterra ideologica, un ritorno a quel che non smette di agitarsi dentro e che il mondo ha declinato al ridicolo del passato remoto, anche La frontière de l’aube (2007) e Un été brûlant (2011) sono forme cocciute di un sentire ostinato, lacerti di pellicola che vuole rifarsi esperienza, rinascita. Garrel si confronta con gli spettri, riaffrontandoli girando, agendo tra loro per procura: Louis, il figlio che aveva esordito a sei anni in Les baisers de secours, risarcisce Philippe del tempo trascorso, è sangue del suo sangue che s’offre alle ombre del tempo che fu. Così un cinema che come nessun altro sa cogliere lo scorrere del presente, del qui e dell’ora cinematografico, s’introflette nel passato, lo riattua, gli ridona respiro. La frontière de l’aube è, in questo senso, un gesto cinematografico nudo, scarnificato e pronto a bruciare al sole freddo dell’ironia contemporanea, che non lo comprende: mélo primitivo, storia trattenuta di un amour fou, è memoria concreta del volto di Jean Seberg, del suo suicidio, del persistere della sua immagine.
Frontalmente: Carole (Laura Smet) muore, poi ricompare come fantasma, chiama a sé e alla morte François (Louis Garrel), l’amante. Che, nel frattempo: ha amato un’altra donna, attende un figlio, è pronto a sposarsi e a offrirsi a quella che chiamano felicità borghese. Garrel, noncurante dello spirito asettico del suo tempo, si concede al fantastico da camera, mostra lo spirito vivo della morta, ma il suo cinema non cambia: abbracciata alla durata, all’anima che si manifesta nelle piccole sfumature, nel variare indeciso di un’espressione, la macchina da presa pe