Il contratto è, nella vita di tutti i giorni, l’accordo con cui qualcuno si impegna a far qualcosa per qualcun altro. Il tassista per portarci a destinazione; l’idraulico per fermare la perdita; la compagnia telefonica per metterci in contatto con quell’amica lontana; e il killer per uccidere un infame. Da Grozio e Hobbes in avanti, però, il contratto è stato anche lo strumento per provare a spiegare perché gli uomini si riuniscono in società e si sottomettono al potere politico. L’idea ha avuto svariate declinazioni e si è sostenuto, di volta in volta, che gli uomini s’accordassero per trasferire la propria libertà allo Stato, pur di evitare uno stato di guerra violenta permanente; oppure col fine di limitare tale soggezione al potere. Il succo, però, è rimasto quello del consenso: infatti, che si tratti di un fatto storico o di una mera ipotesi teorica, “quale fondamento più sicuro può avere l’obbligazione tra uomini del libero assenso di colui che obbliga se stesso?” si chiede Rousseau. Il contratto – il libero assenso dei privati – è la figura centrale del commercio e del mercato; eppure, per alcuni enormi pensatori degli ultimi quattro secoli, sarebbe anche il perno della comunità politica.
<style=”text-align: justify;”>Delle regole per scrivere formulate da Elmore Leonard, celebrato autore di crime novels, la seconda recita: Evita i prologhi. Andrò, quindi, subito al sodo: Killer Joe di William Friedkin (e Tracy Letts, autore della piece teatrale e dell’adattamento per il cinema) e Cogan di Andrew Dominik, con toni stili e umori diversissimi mettono al centro della scena (e nel titolo, almeno in quello italiano) un killer a contratto. Joe è ingaggiato dai due scriteriati Ansel e Chris, padre e figlio poveri e stupidi, per uccidere la ex moglie di Ansel e madre di Chris e intascare l’assicurazione sulla vita. Cogan è assunto dalla mafia per scovare e ammazzare i tre sciocchi delinquenti che hanno rapinato una partita a carte “protetta”. In entrambi i casi, i killer entrano in gioco come dei prestatori d’opera: professionisti assunti per un lavoro. Presto però diventano qualcosa di più: il Potere, o il suo braccio armato. Il libero contratto ha creato un’autorità superiore, che regola e detta legge; il commercio (il mercato, la contrattazione privata) ha istituito il suo guardiano violento e spietato.
Il meccanismo di quest’alienazione è diverso nei due film. Il Texas sottoproletario di Friedkin, selvatico e sregolato, assomiglia allo stato di natura di Hobbes, dove gli uomini, costantemente in pericolo di vita e minacciati ogni giorno dalla possibilità di una morte violenta, vivono una vita “solitaria, misera, sgradevole, brutale e di breve durata” (Il Leviatano). Così è nella famiglia Smith (nome anonimo e emblematico), dove il figlio Chris picchia la madre, la madre ruba la droga al figlio e lo mette nei guai con il pericoloso malavitoso Digger Soames; il padre Ansel vive nella miseria con Sharla e la figlia Dottie, in un camper; tutti litigano con tutti, tutti tradiscono tutti, nessuno ha la più pallida idea di cosa stia succedendo, affogati come sono in una insensata e ottusa inettitudine white trash. L’idea per sfuggire a quest’inferno è Joe Cooper, un poliziotto (la Legge) che fa anche il killer a pagamento. Idea sbagliata, però: la cosa finisce malissimo e gli Smith perdono ogni loro residua libertà, assoggettati a un nuovo capofamiglia, folle e brutale.
La Boston piovosa e notturna di Higgins (che Dominik filma a New Orleans), invece, è una società urbana e evoluta, città del commercio e della politica, che porta iscritta la rivoluzione liberale nella sua storia (il Boston Tea Party, momento iconico della borghese rivoluzione americana, è del 1773, undici anni dopo il Contratto sociale di Rousseau e undici anni prima del saggio di Kant su Che cos’è l’Illuminismo). A Boston c’è un mercato istituito, regolato e sicuro, perché il Potere ne garantisce il funzionamento secondo regole accettate e applicate, se del caso, con la forza. Così come il mercato finanziario è andato in tilt con la crisi dei mutui subprime, anche il mercato malavitoso delle bische clandestine – che ha regole e garanti – s’inceppa per l’avventura spregiudicata di tre disgraziati: Johnny Amato, Frankie e Russell. L’ordine dev’essere ristabilito e la mafia chiama Jackie Cogan per il necessario enforcement. Cogan non è uno sbarellato Leviatano come Joe Cooper, ma un manutentore di un ordine già costituito che si preserva tramite la forza bruta. La sua azione però svela che le relazioni che compongono il contratto sociale sul quale è chiamato a vigilare sono tanto misere, sporche e ottuse quanto quelle dell’originario stato di natura degli Smith. La comunità che si forma sulla legge è un’illusione e, come sintetizza il killer in uno degli infiniti sproloqui del film, America is business.
La suggestione teorica potrebbe germogliare in paginate di ulteriori elucubrazioni. Ma, consigliato ancora da Elmore Leonard, che odia i dilungamenti, mi fermo qui. Il punto è che la suggestione teorica non è abbastanza e i modi in cui Friedkin e Dominik la svolgono ha varie pecche. Sui pregi dei due film (che ci sono) non mi soffermo – e mi limito a lodare le magnetiche prove dei due protagonisti e a rimandare alle schede. Sulle pecche, invece, bisogna sostare.
<style=”text-align: justify;”>Cogan è un film quasi interamente incentrato sulle chiacchiere. Come ricordano Alessandro Baratti e Luca Pacilio nella loro bellissima recensione, Higgins, l’autore del romanzo qui adattato da Dominik, è un punto di riferimento cruciale per Elmore Leonard. E Leonard è, come sa chiunque l’abbia mai letto, uno dei più grandi maestri del dialogo. Ma chiacchiere e dialogo non sempre sono la stessa cosa. Le chiacchiere, in Cogan, sono inutili, vuote, insensate: non muovono la trama, non sostanziano i personaggi, non muovono lo spettatore. Sono sfoghi annoiati, girandole, cazzeggio. Si può sostenere, ovvio, che la vacuità meccanica (oltre a quella semantica) sia la loro finalità esplicita. Ma qui ci si permette di dissentire. Il decimo e ultimo consiglio di Elmore Leonard per gli scrittori è di togliere via le parti che i lettori tendono a saltare. I dialoghi, ci dice Leonard, non rientrano mai tra queste. Quando leggiamo, saltiamo descrizioni, digressioni, elucubrazioni, ma raramente (o quasi mai) saltiamo il botta e risposta tra due personaggi. Be’, potete confessarlo: i dialoghi tra Brad Pitt e James Gandolfini li avreste voluti saltare a piè pari. E scommetto che Dominik e i suoi montatori Kates e Hortsmann devono averli saltati anche loro: quantomeno quello del primo incontro al tavolino di un bar, visto che a ogni controcampo i bicchieri davanti a Gandolfini diventano pieni, vuoti, di nuovo pieni, e si scambiano posto con un bellissimo balletto d’incoerenza visiva. Ma delle chiacchiere di Gandolfini il Nostro (o forse già Higgins?) dev’essersi stufato già quando stendeva la sceneggiatura, visto che fa scomparire il personaggio così, senza convenevoli, poco dopo l’interminabile sproloquio in albergo, con un scambio di battute (ancora chiacchiere) tra Brad Pitt e Richard Jenkins. Ma la debolezza di Cogan sta, a mio avviso, nella sovrastruttura politica calcata a forza dentro lo script: la suggestione teorica diventa esclamazione a caratteri maiuscoli (Regola n. 5 di Elmore Leonard: Tieni a bada i punti esclamativi) e Dominik la spalma a manate dall’inizio alla fine, inquadrando cartelloni elettorali, comizi, telegiornali e snocciolando discorsi politici alla radio come commentario esplicito al plot criminale. Sperava, forse, in un ispessimento di significato, ma finisce per strafare e trasforma il sottotesto in un’impalcatura dominante e forzata che assomiglia, nella sostanza, a un generico rantolo populista: in fondo, son tutti dei delinquenti.
Killer Joe, dalla sua, è un film girato in fretta, e frettolosamente. Friedkin cerca di movimentare il quadro teatrale con soluzioni che sembrano scelte a caso da un campionario comprato all’ingrosso. Oltre alle ironiche congiunzioni di maniera (su tutte ricordo i fulmini che squarciano la notte buia e tempestosa: Regola n. 1 di Leonard: Mai cominciare col tempo atmosferico), basti pensare alla sequenza in cui il figlio propone il suo piano al padre. I due si spostano in vari punti del night solo per vivacizzare il contesto visivo del lungo dialogo (ora il bancone, ora le scale, ora due tette, ora uno strip inquadrato di sguincio), ma il risultato è goffo e svela come Friedkin si sia ben posto il problema dell’adattamento cinematico di un testo dal pesante impianto teatrale, ma che l’abbia risolto, nel poco tempo che ha avuto, in una maniera alquanto rappezzata. Il succo del discorso su Killer Joe riguarda, però, l’eccesso. Il testo di Tracy Letts mescola con spregiudicatezza commedia dark, noir e esagerazione. Friedkin, tra i vari umori, si affida all’eccesso pulp e all’exploitation per impacchettare il film e insiste quindi con pestaggi, botte e maciullamenti facciali (un nuovo genere scult, ormai, che ha Gaspar Noé come maestro indiscusso e Refn come epigono estetizzante: Friedkin, qui, improvvisa una più morbida versione redneck tanto per gradire). Gli scoppi sadici e farseschi, però, arrivano improvvisamente con l’enfasi caricata di chi vuole stupire a tutti i costi (Regola n. 6 di Leonard: Non usare mai la parola “improvvisamente” o l’espressione “si scatenò l’inferno”) e sembrano più una molestia gratuita che uno sviluppo sensato. Resta l’impressione, insomma, che la programmaticità cult sia una furberia.
È inevitabile, per chi bazzica troppi film, abbandonarsi di tanto in tanto all’eccesso squinternato e depravato come a una rinfrescante promessa palingenetica – così come per chi ha visto troppe scoraggianti puntate di Report e di Ballarò lasciarsi tentare dal vaffanculo ideologico. È inevitabile e umano, e anche molto liberatorio. Non è detto però che sia sempre salutare (per il cinema o per la democrazia, a seconda dei casi).