Pagine di un diario veneziano

L’ultimo, beffardo smacco subito da Valerio Zurlini (1926-1982) è stato quello di non poter assistere alla pubblicazione del libro amorevolmente curato nell’ultimo scampolo della sua vita. Volume dal peso di quattro chilogrammi, impreziosito da cinque acqueforti originali di Renato Guttuso e pubblicato in tiratura limitata dalla Libreria Antiquaria Prandi di Reggio Emilia nel 1983, Gli anni delle immagini perdute è difatti uscito alcuni mesi dopo la sua scomparsa: Zurlini ne aveva seguito scrupolosamente la veste tipografica e l’impaginazione, ben conscio che, in stadio avanzato di malattia e disinteressato a curarsi, quest’ultima fatica avrebbe accolto le sue memorie e i suoi rimpianti, le sue passioni artistiche e le sue amarezze professionali, il miele e il veleno. Un libro letterariamente raffinato in cui si sovrappongono, talvolta compenetrandosi, pagine diaristiche e analisi pittoriche, confessioni intime e disamine artistiche, suggestioni testamentarie e progetti cinematografici condannati a restare lettera morta (in particolare un soggetto, La zattera della Medusa, e due sceneggiature pronte per essere tradotte in immagini, Verso Damasco e Il sole nero).
Oggi, a più di venticinque anni dall’inattingibile pubblicazione (furono stampati soltanto duecento esemplari destinati a una cerchia ristretta di amici), la casa editrice Mattioli 1885 ripubblica il libro quasi integralmente, espungendo soltanto le sceneggiature e dando finalmente agli estimatori di Zurlini l’opportunità di leggere questo volume insieme rapsodico e rigoroso, in cui il cineasta nato a Bologna e vissuto tra la costa adriatica, Milano, Roma e Venezia si racconta senza mai indulgere nell’autocommiserazione o nel risentimento, ma rivelando al contrario una strenua lucidità nel ricordare episodi lontani (la repressiva educazione gesuitica), esperienze adolescenziali (le estati passate a Riccione e la militanza nel Corpo Italiano di Liberazione), folgorazioni universitarie (il colpo di fulmine per il teatro), primi passi nel cinema (i cortometraggi e i documentari) e affermazioni professionali tanto promettenti quanto travagliate (il rapporto con Riccardo Gualino, presidente della Lux Film, e i lunghi periodi di inattività forzata). Il tutto preceduto da una confidenziale Prefazione di Filippo Tuena e dalla toccante Introduzione di Vasco Pratolini, la stessa che apriva, tracciando idealmente un profilo artistico dell’amico e collaboratore, Gli anni delle immagini perdute.
Ferma e sicura, la penna di Valerio Zurlini trasferisce su carta il suo universo interiore con infallibile nitidezza, fotografando momenti di vita presente e passata (il memoriale è stato scritto tra il novembre 1981 e il maggio 1982), sbozzando aneddoti e retroscena (l’aiuto ricevuto a inizio carriera da Pietro Germi, il furto del soggetto di Guendalina da parte di Carlo Ponti) e dedicando pagine sentite e penetranti ai rapporti tra cinema, pittura e letteratura (sono acutamente indagati i processi espressivi che le connotano e le trasformazioni che la trasposizione cinematografica comporta di necessità, sia quando la fonte d’ispirazione è di carattere figurativo sia quando è di natura romanzesca). Immune da deleteri stereotipi e scevra di timori reverenziali, la poetica zurliniana ne esce oggettivamente magnificata: per Zurlini, e questo rappresenta senza dubbio l’aspetto cruciale delle Pagine di un diario veneziano, un film è prima di ogni altra cosa occasione di autoanalisi, scavo interiore, confronto serrato e impietoso con questioni irrisolte e ossificate nella coscienza (“Quando un autore sta per iniziare un film è sempre alla vigilia di una oscura autoanalisi”). La posta in palio non è solo di ordine estetico, ma, ben più drammaticamente, esistenziale: fare un film significa sciogliere nodi intimi, affrontare a viso aperto coercizioni morali, evolvere e progredire (“Nessun autore termina il suo film essendo lo stesso uomo che lo ha iniziato”).
Inevitabile dunque che per Zurlini la brusca interruzione dei progetti cinematografici avviati si identifichi in tutto e per tutto con un intollerabile impedimento a crescere come artista e come uomo, sentendosi privato della possibilità di scrutare, per interposti personaggi, antiche e temute inibizioni. “Forse il film, qualora si fosse realizzato, obbligandomi i personaggi ad indagare e scoprire le loro verità più segrete, avrebbe potuto sciogliere i tanti nodi angosciosi avviluppati da una vita cominciata in anticipo o in ritardo; mi avrebbe costretto a un paventato penoso ritorno alle origini”, dice a proposito del naufragio produttivo di Verso Damasco, progetto interrotto dopo scrupolosi sopralluoghi in Israele. Una mancata realizzazione che Zurlini definisce “la più amara sconfitta che ho dovuto subire nella mia vita professionale”. Alla descrizione dei sopralluoghi a Gerusalemme – e al progressivo delinearsi della veste figurativa del film “in immagini difficili e intransigenti” – si alternano i terribili squarci dei bombardamenti e delle devastazioni cui ha assistito tra i diciassette e i diciannove anni, chiaro riflesso di una violenza che rade al suolo ogni slancio vitale e ogni illusione creativa. Un controcanto annichilente che si riallaccia alla brutalità e alla ferocia dell’ambiente cinematografico, pronto a etichettare come “una storia di froci” la sceneggiatura della Zattera della Medusa scritta in collaborazione con Nicola Badalucco e Enrico Medioli (“Ci fu restituita con parole di deplorazione come se avessimo violentato una paralitica”). Leggendo le pagine dedicate alla lavorazione di Verso Damasco si ricava la netta impressione che per Zurlini il film sarebbe stato il teatro ideale per mettere a fuoco il suo cristianesimo rinnegato e la sua spiritualità tormentata: se fosse riuscito a girarlo, oggi, con ogni probabilità, il cinema italiano (e non solo) avrebbe un capolavoro in più.
Lo struggente Epilogo (pp.227-240) si apre con la salita alla cupola del Duomo di Parma per contemplare gli affreschi del Correggio riaperti al pubblico dopo un restauro durato anni. La descrizione emozionata e affascinata dell’opera genera espressioni di enorme suggestione letteraria (“soffici idee di carne”, “un gioco innocente e pagano in un ideale giardino dell’Eden”). Come per l’arte di Veronese, Zurlini è sedotto e incantato dalla bellezza che si stacca elegantemente dall’orizzonte religioso che l’ha occasionata: in questo trasporto si percepisce una profonda consonanza con la sua rivolta contro l’educazione gesuitica e un’immedesimazione con l’artista che antepone le ragioni della propria poetica ai vincoli esteriori. Nelle opere di Veronese e Correggio, Zurlini individua uno slancio di ribellione trasfigurato in bellezza e sensualità: la stessa sublimazione estetica che egli ha tenacemente perseguito col suo cinema. All’uscita della visita, la realtà prende di nuovo il sopravvento riportandolo angosciosamente coi piedi per terra: a nulla valgono le incantevoli suggestioni lasciategli dalla rapita contemplazione (“Ma nonostante l’esaltazione che continuava a vibrarmi dentro per il capolavoro appena ammirato ero scontento e impensierito”). E allora il suo pensiero segue il nuovo e prepotente stato d’animo, disegnando una parabola di amarissimo sconforto, fino a dilatarsi smisuratamente e ricongiungersi alla disperata rassegnazione per i progetti non portati a termine: “Un’opera incompiuta è una tappa di vita non percorsa, un traguardo non raggiunto, una somma di anni inutilmente perduti, una cicatrice in più, uno sterile anticipo di morte”. Lo straziante e disarmato atto di resa di un uomo ridotto al silenzio: “Ma la speranza non ha mai cambiato il tempo dell’indomani”.