

Esemplarità di un saggio westernCiò che rende il libro di Matteo Pollone Il western di Anthony Mann. The Man in the Wild, the Wild in the Man un saggio semplicemente esemplare non è tanto l’accuratezza dell’analisi o la qualità letteraria (di studi avvertiti e ben scritti se ne trovano a dozzine), quanto l’inconfondibile sensazione di trovarsi di fronte a una trattazione così profondamente padroneggiata e articolata da stabilire con l’oggetto di studio e col lettore una relazione di assoluta maturità. Indici di intimità col corpus esaminato e rispetto nei confronti del destinatario sono da una parte la molteplicità delle angolazioni adottate nella ricognizione dei dieci (e mezzo) western di Mann e dall’altra la postulazione di un lettore che conosca (e possibilmente possieda) le pellicole in questione. Si instaura così, pagine leggendo, una relazione autenticamente conoscitiva ed evolutiva tra indagine critica, oggetto di studio e lettore competente che produce una progressiva valorizzazione delle tre parti in causa. Un dialogo a tre termini da cui si esce decisamente arricchiti sia dal punto di vista strettamente autoriale che da quello più ampio della storia e della teoria del genere.
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Pollone scompone il corpus esaminato in undici snelli capitoli che, muovendo dal generale al particolare, restituiscono un’immagine tanto stratificata quanto compatta della produzione western di Mann. Nel lavoro di esegesi, il giovane critico è indubbiamente agevolato dalla forte coerenza dei film considerati: sceneggiature prevalentemente scritte da Borden Chase e Philip Yordan, relativa omogeneità del cast (con James Stewart protagonista in ben cinque casi) e rigorosa continuità cronologica (i dieci western più l’appendice epica di Cimarron si collocano tutti tra il 1950 e il 1960). Eppure – altro rimarchevole merito del saggio – ad emergere con nettezza sono proprio le differenze e la progressione tra film e film. Stante la stringente unità di fondo (ulteriormente consolidata dai macrotemi della vendetta e della lacerazione), Pollone preferisce valorizzare gli elementi di diversità, provando in tal modo come la frequentazione del genere da parte di Mann non risponda a redditizie ragioni di successo, ma configuri al contrario un percorso di graduale sviluppo di un discorso sull’uomo come soggetto lacerato a più livelli. Grazie a questa prospettiva diversificante i western di Mann descrivono un cinema in movimento, non abbarbicato all’inerte sfruttamento di formule collaudate, ma impegnato, al contrario, in una rilettura personale dei luoghi tipici del genere (l’eroe solitario e la comunità, il conflitto tra legge e banditismo, la conquista dei territori da colonizzare e le inevitabili tensioni con le popolazioni dei nativi).L’approccio dal generale al particolare offre inoltre a Pollone l’opportunità di inserire la trattazione in un orizzonte più ampio (la teoria del genere) e passare debitamente in rassegna i contributi storico-critici fondamentali (Rieupeyrot, Bazin, Kezich, Godard, Rivette). Meticolosamente saggiata l’integrità western dei dieci film di Mann (e in questa meticolosità sta forse l’unica nota ridondante di uno studio altrimenti ineccepibile), il giovane critico si concentra sui film, ponendo in evidenza la centralità del tema vendicativo e la preziosa collaborazione dei due sceneggiatori preferiti dal regista: Borden Chase e Philip Yordan, autore di script esplorativi e psicoanalitici il primo, artefice di copioni stanziali e tragici il secondo. Forte del loro apporto differenziato, Mann può dedicarsi interamente alla messa in scena del nucleo tematico del suo cinema: la lacerazione. Oggettivata filmicamente nella nozione di frontiera, la scissione che dilania gli eroi manniani rappresenta il tratto distintivo più marcato dei suoi western e al tempo stesso una novità di rilievo nel panorama del genere: da Winchester ’73 (1950) a L’ultima frontiera (1955), passando per Là dove scende il fiume (1952) e Terra lontana (1955), i protagonisti manniani sono uomini insanabilmente scissi sul piano fisico, morale, sociale e storico. Personaggi interiormente ed esteriormente presi tra l’“avvenire che trascina via e il passato che rende prigionieri” (Bellour). È il capitolo centrale del libro, eloquentemente intitolato Filmare la lacerazione (pp.55-69), a illustrare con una chiarezza pari soltanto alla profondità argomentativa la crucialità di questo nucleo tematico. Dopo Mann, insomma, il western cambia volto, perdendo l’armonia dell’epopea che possedeva prima della guerra e aprendosi alle contraddizioni tragiche della stagione crepuscolare.
Individuato e isolato il cuore pulsante del western manniano, Pollone ne analizza, per così dire, il sistema circolatorio, mostrando come la vicenda del protagonista trovi terreno fertile nelle figure che lo circondano: dal nucleo familiare (inteso per lo più in senso lato) all’ostilità dell’antagonista (molto spesso doppio malvagio dell’eroe) passando per la gregarietà della folla (massa indifferenziata soggetta alla manipolazione), il personaggio principale stabilisce con queste entità rapporti che amplificano la sua lacerazione portandola al punto di non ritorno. Particolare importanza è rivestita dalla “donna nella ballata” (Mann), che può fungere sia da mero catalizzatore dell’instabilità interna del protagonista (Anne Bancroft in L’ultima frontiera) ma anche e soprattutto – ed è questa un’altra marca di eccezionalità del western manniano – assurgere a soggetto coraggiosamente indipendente (Paula Raymond in Il passo del diavolo, 1950) o addirittura conseguire lo status di eroina “fiera, combattiva e libera”, come testimoniato da Barbara Stanwyck ne Le furie del 1950. Nella galleria umana del western di Mann non mancano poi le figure dei pard, amici maturi che rivestono una generica funzione di coscienza per il protagonista, né quelle dei caratteristi che, a differenza di molti altri western coevi, “si tramutano facilmente da personaggi peculiari e talvolta divertenti in personaggi tragici o malvagi”, come avviene emblematicamente in Là dove scende il fiume.
I capitoli più criticamente evoluti, tuttavia, sono senza ombra di dubbio il settimo e l’ottavo, rispettivamente Il re delle montagne. Lo spazio e Figures in a landscape. Nel primo, dopo aver enucleato i principali significati associati agli spazi sociali (le terre operosamente colonizzate, gli avamposti della civiltà nella wilderness), Pollone indaga le modalità di rappresentazione della natura (concepita da Mann quale dato prioritario) e dei luoghi artificialmente organizzati dall’uomo (gli enormi ranch, le cittadine stabili), mettendo brillantemente in evidenza il trattamento antitetico riservato loro da Mann: sudditanza e adattamento dei personaggi e della cinepresa nello spazio naturale e libertà e facilità di movimento in quello artificiale. Ma non è tutto: grazie a un poderoso investimento simbolico che coinvolge cielo e terra, osserva Pollone nel paragrafo Gli spazi della tragedia, il paesaggio trasfigura addirittura in cornice tragica (L’uomo di Laramie, 1955) o in correlativo oggettivo dell’interiorità dei personaggi (Lo sperone nudo, 1953). In Figures in a landscape poi, elencate rapidamente le peculiarità estetiche degli autori che hanno impresso il loro marchio sul genere (John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh, Samuel Fuller, Nicholas Ray e altri), è lo stile cinematografico di Mann a venire attentamente vagliato. Qui il giovane critico, mettendo a frutto l’intera trattazione precedente, pone l’accento sull’originalità dell’uso manniano della cinepresa: modernamente svincolata dai movimenti dei personaggi, a volte la camera “sembra vivere di vita propria”, sorprendendo lo spettatore con panoramiche a schiaffo, carrellate e gru che abbracciano nella stessa inquadratura elementi scenicamente distinti per creare suggestivi effetti di shock, pericolo imminente e suspense.
Intitolati Cimarron. Epilogo (del western) e Fine di una storia, il decimo e l’undicesimo capitolo sono infine consacrati a Cimarron (1960) – semikolossal/semiwestern (limitato da improvvisi tagli nel budget e appartenente al western solo nella prima metà) che rappresenta “una sorta di secondo addio al genere da parte di uno dei suoi registi più innovativi” dopo il definitivo Dove la terra scotta (1958) – e a una succinta ma incisiva riflessione sull’impatto e sul lascito dei western di Mann nella storia del genere. Scomparso nel 1967 e abbandonato il western integrale da nove anni, Emil Anton Bundsmann ha lasciato al genere un’eredità fatta di eroi lacerati e irrimediabilmente autodistruttivi, di tuonanti atti d’accusa alla civilizzazione americana imbrattata di sangue e lotte intestine, di attenzione al dettaglio realistico e agli scenari naturali che respingono esteriormente e rispecchiano interiormente il protagonista. Tutti elementi, questi, che saranno ripresi e sviluppati dal western degli anni Sessanta e Settanta (Sam Peckinpah, Arthur Penn, Sydney Pollack, Richard C. Sarafian). “Si può tranquillamente affermare” – conclude dunque Pollone – “che più che a Ford o a Walsh, il western degli anni successivi all’abbandono del genere da parte di Mann sia in gran parte debitore proprio a lui, fino ai cosiddetti «spaghetti western», le cui ambientazioni, il cui tono essiccato, violento, ai limiti del grottesco sembrano uscire direttamente dalle opere di Mann (…)”. Chiudono il volume un capitolo che ripercorre la vita e la carriera di Anthony Mann, una filmografia mirata e un’altrettanto calibrata bibliografia. In una parola, un saggio esemplare.