

Volevo inoculare un po’ di ottimismo senza perdere il contatto con la realtà. Un po’ come fare del neorealismo contemporaneo, ma a colori.
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_x000D_In me c’è un 60% di esistenzialismo, un 20% di comunismo, un 10% di ecologismo di sinistra e un 10% di anarchia. Il resto è acqua e normale socialdemocrazia.
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_x000D_Adoro l’America del New Deal e di Roosevelt. Adoro la vecchia Hollywood. Un tempo in cui le barche erano di legno e gli uomini d’acciaio. Oggi le barche sono d’acciaio e gli uomini di cartapesta.
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_x000D_L’allegria è un’elaborazione del lutto rovesciata.
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_x000D_Quando sul piano sociale si è perso tutto, non resta che la fierezza. I pregiudizi sono un privilegio delle classi superiori. Nei ricordi dei campi di concentramento di Primo Levi e di Jorge Semprun comprendiamo che quando persino la dignità fisica dell’uomo viene frantumata dalla macchina fascista, è possibile mantenere il rispetto di se stessi.
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Errerebbe, chi pensasse al sottotitolo di questo libro – Dialogo sul cinema, la vita, la vodka – come a un anticlimax, coerente peraltro allo spirito del regista finnico. La conversazione ironica, amara, di somma e lieve intelligenza fra lo storico del cinema Peter Von Bagh e Aki Kaurismäki, che ripercorre in un tracciato misto le tappe della filmografia kaurismäkiana, concerne effettivamente gli universi più vasti – la condizione umana, quel particolare stato di ondivaga speculazione di cui la vodka è metonimia – all’interno dei quali il cinema è uno fra i tanti sistemi comunicativi. Non dei più importanti, stando a Kaurismäki, che riconosce nella letteratura l’autentica levatrice di visioni del mondo non indugianti a una superficie ludica e accattivante (Michael Powell era innamorato dei fiumi, Luis Buñuel dei bar tranquilli, io più di tutto ho sempre amato i libri). Il cinefilo insaziabile e coltissimo, l’antico frequentatore instancabile e rompiscatole di impegnativi cineforum (dove conobbe von Bagh, orsono trent’anni: nel libro c’è una foto che li ritrae, il critico in piedi di fronte a un uditorio affollato e attento; in prima fila, fra i tanti, lo sguardo vagamente accigliato del futuro regista), conosce e rispetta l’autonomia e la ripetuta grandezza del linguaggio cinematografico con illuminanti riflessioni sul cinema muto, il valore del colore (col colore si può ottenere qualunque risultato; si può anche distruggere il film, come ha fatto Greenaway), l’ingombrante peso della recitazione (il mestiere degli attori è fingere di aver qualcosa da dire), e osservazioni sul cinema di grandi e piccoli registi del passato e del presente; ma deride la parzialità e il solipsismo di cui il cinema sovente è reso schiavo, ingabbiato dall’arroganza autoreferenziale di autori (si sono montati la testa) e d’una schiera di chierici, che dettarono la moda e le danze nell’arco d’un ventennio, e oggi soffrono un declino ornato sì di spezie raffinatissime, ma destinato ugualmente a infrangersi contro le pareti del suo stesso dedalo: simili per orgoglio e penosa cecità al minotauro del racconto di Borges, meriterebbero forse che a raccontarli officiasse lo sguardo d’un Lynch. In mancanza, dovranno accontentarsi del distratto sarcasmo di Kaurismäki.Il testo procede alternando al dialogo col regista pagine di critica cinematografica – una salutare lezione di chiarezza e profondità – ben lontane dalla regola cui siamo adusi, cioè l’attenzione ossessiva ai dettagli da parte di sguardi incapaci di vedere le relazioni fra le parti, la complessità dell’insieme (detto altrimenti, il massimo dell’acutezza dello sguardo che dilata all’inverosimile il fuoricampo fino a non vedere più nulla intorno a sé).
_x000D_ Le semplici differenze reali fra gli uomini di cui parlava Serge Daney sono da sempre al centro dell’attenzione di Kaurismäki (e di pochi altri), esattamente come sono del tutto emarginate dallo sguardo tuttora dominante nel cinema odierno (ma quante crepe si vanno ormai aprendo, nella sua metafisica brillantezza!). La grandezza del cinema di ieri fu di porre la perizia di un linguaggio moderno e accattivante, spettacolare, al servizio di un bene che trascendesse le sottigliezze del linguaggio stesso; fu, anche, la grandezza di un ceto intellettuale che rifletteva dall’esterno su una crisi allora incipiente. Poi, le coordinate dell’epoca si dilatarono mostruosamente, ma la sua atmosfera tartarea ed euforica per un lungo tratto non fu neppure percepita, o addirittura fu esaltata come il non plus ultra della modernità: massificazione e spettacolarizzazione dell’esistenza, estetizzazione della merce, primato occultante del linguaggio, narcisismo isterico, abolizione ideologica dei conflitti reali, frantumazione della memoria (cioè del senso e del peso della Storia) e sua sostituzione con la pratica erudita della citazione, nichilismo morbido e soddisfatto insensibile alla cura del mondo. Non v’è alcuno di tali profili contro cui la creatività del regista non abbia operato: smentendoli senza premure o mostrandone i risvolti grotteschi, la tragica inconsistenza.
_x000D_Sino a pochi anni fa, il cinema inattuale e splendidamente, duttilmente romanzesco di Kaurismäki (che racconta meravigliosamente bene storie dense di dramma e gioia, di solitudine e speranza, le quali coinvolgono esseri i più comuni e vicini a noi e sono più appassionanti di qualunque Epica o Lirica: sarà un caso, se numi tutelari dell’autore sono Ozu e Bresson?) era considerata una bizzarria, la sua esaltazione lo sfizio di cinefili ottusi.
_x000D_Il libro illustra, con la scansione della poetica del regista e dei temi a lui cari (il lavoro, l’emarginazione, la povertà, lo sfruttamento, le barriere di classe, la dignità degli esclusi e degli ultimi), i motivi dell’estraneità di Kaurismäki al grande e potentemente spettacolare cinema di fine Novecento; ma spiega anche i motivi del sempre maggiore interesse che il suo cinema va suscitando (anche retrospettivamente) oggi: la Storia è come l’inconscio, tutto vi si sedimenta, niente va completamente perduto. La sicurezza e la strafottente ilarità dell’ultimo quarto di secolo hanno lasciato il posto all’insicurezza, alla paura, alla crescente instabilità e precarietà. Dalle pagine del libro risalta come gli “universi alternativi” immaginati dal finlandese (come definire altrimenti le stupende atmosfere di Nuvole in viaggio e L'uomo senza passato?) siano sì un tempo altro rispetto a quello assegnatoci, un tempo 'impossibile'. Ma è il nostro tempo: l'autonomia simbolica rispetto all'ordine del discorso imperante – la consapevolezza linguistica di Kaurismäki impressiona per esattezza ed efficacia, altro che cinema ingenuo o di forma elementare! – arpiona la nostra realtà, ce la riporta nuda davanti agli occhi. I silenzi dei suoi personaggi; la recitazione minimale; i gesti secchi e improvvisi, parchi; le scarnificate e fulminee conversazioni; l’impassibilità; il tremendo concatenarsi delle azioni: una narrazione siffatta svela ogni cosa, l’essenziale spogliato da ogni nota superflua e ricondotto a una sorprendente innocenza.Così, la forza sovversiva del suo cinema, che leggendo le pagine del libro si può avvertire grazie anche a un apparato iconografico eccellente per dovizia e arguzia (e dolcemente nostalgico: la foto, scattata da Thelma Schoonmaker, che ritrae il regista accanto a Michael Powell, o quella che lo affianca a Samuel Fuller fanno venire le lacrime agli occhi) e a brevi zoom su temi (l’adattamento dei classici, tesori nascosti del cinema finlandese, colori, il tango…) e collaboratori (Kati Outinen, Timo Salminen, Matti Pellonpää…), non è di aver enfatizzato un messaggio, ma di aver riportato per immagini significanti constatazioni tanto semplici ma così neglette da essere nuovissime e rivoluzionarie, e da diventare – nel gioco metaforico della finzione narrativa – irresistibili.
_x000D_ Kaurismäki si beffa degli spiriti vanitosi e meschini, che credono di poter fare cinema o parlare di cinema dimenticando la parte più importante e difficile. Lungo tutta la conversazione, sono frequenti i richiami alle dinamiche economiche, sociali, politiche; né ci si poteva aspettare qualcosa di meno, dall’autore di una delle più impietose rappresentazioni della borghesia capitalistica (Amleto si mette in affari, 1987) a proposito della quale lo stesso Kaurismäki dice non lasciatevi ingannare dalla bellezza classica di quest’opera: è questione di soldi, di vita e di morte. La polticità della sua arte viene rivendicata, anziché nascosta dietro il ridicolo paravento del “qui si parla solo di cinema”, con continuità e senza alcun timore di apparire contro la corrente del momento; quello che Von Bagh chiama “bolscevismo interiore, tanto più duro quanto più risponde al bisogno di un mondo più giusto” sostanzia le idee di Kaurismäki non meno della sua poetica cinematografica, e intride i suoi film concorrendo alla loro grandezza.
_x000D_Parlare dell’uomo è impresa degna d’un eroe; ancor più lo era venticinque anni fa; il libro, edito in Italia grazie alla traduzione di Gualtiero De Marinis e Rinaldo Censi e con la collaborazione della Cineteca di Bologna, è un doveroso contributo alla migliore conoscenza di un’opera eroica.
Gentile Mr. Pierson,
_x000D_La ringrazio per il suo invito alla cerimonia di premiazione dell’Academy. Tuttavia, sono certo che lei e gli altri membri siate coscienti che non viviamo nell’epoca più nobile della storia dell’umanità. E’ per questa ragione che né io né altri della società Sputnik assisteremo al gala degli Oscar in un momento in cui il governo degli Stati Uniti prepara un crimine contro l’umanità in ragione di spudorati interessi economici. Di fronte a tutto ciò, non siamo dell’umore di festeggiare.
_x000D_Spero comprenderete che la nostra decisione, in questa situazione terribile, non è diretta contro l’Academy o contro i cittadini degli Stati Uniti. Si tratta unicamente di una scelta morale, di un granello di sabbia in un mondo insensato.
_x000D_Il cinema deve poter vivere, ma si dovrebbe accordare la stessa possibilità ai civili iracheni: bambini, donne, uomini.
_x000D_18 marzo 2003