Sergio Leone. America e nostalgia

Duole constatare che oggi il ricordo di Sergio Leone, uno dei più grandi cineasti che la storia del cinema ci ha consegnato, debba rimanere quasi esclusivamente correlato alla bulimia metacinematografica di Tarantino (peraltro grandissimo, e probabilmente insuperabile, estimatore del regista romano) e ai passaggi televisivi a tarda ora sulle reti mediaset, ree confesse di risapute “interruzioni emotive”. Stride anche l’idea che un saggio sul cinema di Leone si trovi in data 2005 a dover rinforzare una letteratura critica peninsulare sul nostro piuttosto carente, quantitativamente e qualitativamente (con le dovute esigue eccezioni, sia chiaro), quando altrove, dalla Francia agli Stati Uniti, sono già stati versati ettolitri di ottimo inchiostro.
_x000D_Il volume Sergio Leone. America e nostalgia di Roberto Donati edito dalla consumata casa editrice alessandrina Falsopiano giunge dunque atteso e ampiamente gradito, soprattutto se si considera che il giovane preparatissimo studioso, nonostante la sua acerba esperienza in ambito critico, decide di esplorare attraverso una scrittura decisamente evoluta e un’invidiabile acribia analitica il territorio estetico del cinema leoniano rintracciandone paradigmi linguistici e motivi strutturali.
_x000D_Donati, affinando la sua ricerca, si concentra sul Leone della seconda trilogia, la cosiddetta “trilogia del tempo” (C’era una volta il West, Giù la testa, C’era una volta in America), evidenziando di volta in volta elementi di contiguità o di rottura con la precedente “trilogia del dollaro”, dalla quale muove verso l’identificazione di un unico termine chiave in grado di dischiudere l’intero orizzonte poetico di Leone, quella nostalgia le cui avventure semantiche transitano dal sentimento malinconico provato per un mondo che non c’è più, quello di una volta, del vecchio West come dei proto-gangsters newyorchesi, al dolore della perdita di un più specifico universo cinematografico (quello della old-Hollywood dei Ford, degli Hawks, dei Walsh, dei Wellman etc.) che si ritrova nella stessa condizione di non esistenza e che era capace di rappresentare in forma mitopoietica quello stesso mondo della ruralità di frontiera e della primitività urbana. Un cinema che dunque, al di là di simbologie psicanalitiche eccedenti (totalmente eluse nell’indagine di Donati), ha saputo, sulla scorta di referenze letterarie che attraversano le pagine proustiane e di Thomas Mann, come anche quelle di Hemingway e di Dos Passos, riempire ricoeurianamente di senso l’astratta categoria del tempo per ricostituire non solo un humus diegetico come mito del crepuscolo e della demitizzazione, ma proiettare altresì l’immaginario di un regista innamorato del cinema, e generare un amalgama visivo e visionario (adoperando una sofisticata sintassi cinematografica) trasformandolo in sentimento del tempo (che inevitabilmente trascorre, modificando se stesso e le cose), meccanismo di una memoria contemporaneamente individuale e collettiva, come nella fusione dei ricordi di Noodles, affidandolo a null’altro che alla purezza di un agente trasfigurante come il mezzo cinematografico nella sua operazione di disseminazione significante.
_x000D_Il bel saggio risulta infine impreziosito da due testimonianze d’eccezione: quella dello sceneggiatore Sergio Donati, che ci ricorda un Leone come autentico “animale di cinema”, innamorato del suo lavoro e per questo molto severo con gli altri e con se stesso, e di Luca Beatrice, critico d’arte attentissimo al dispiegamento linguistico nell’opera del cineasta che ha reinventato il western.