Il cinema coreano contemporaneo.

Identità transizionale in famiglia
Pur vantando una delle copertine più brutte nella storia dell’editoria planetaria, Il cinema coreano contemporaneo, studio di matrice Cultural della professoressa Hyangjin Lee, ha mille perché al suo attivo. In primo luogo colma un vuoto spaventoso, quello dell’indagine approfondita del cinema coreano nei suoi addentellati con la situazione politica: ripercorrendone la storia dall’avvento (nel 1903) fino alle recenti effervescenze dell’hanryu (la nuova ondata sud-coreana), la studiosa asiatica traccia un profilo asciutto, scorrevole e sempre ricco di osservazioni determinanti per agganciare i testi al contesto. Considerando che si tratta dell’ampliamento di una tesi di dottorato, colpisce la leggerezza accademica della scrittura, mai pedante o criptica nell’illustrazione dei film presi in esame. In secondo luogo procede ad una comparazione sistematica della produzione della Corea del Sud e di quella del Nord: ne scaturisce un quadro naturalmente ricco di diffrazioni e dissonanze, ma anche percorso da una sotterranea rete di omogeneità. Un tessuto connettivo secolare che ignora l’odiosa frontiera del 38º parallelo per attraversare integralmente la penisola: l’etica confuciana. È nella tradizione culturale premoderna, insomma, che i coreani individuano quell’unità negata dalla storia recente e che tutti, indistintamente, vivono come una profonda e dolorosa ingiustizia.
L’ampiezza del compasso analitico e la “descrizione di spessore” del libro – recante l’emblematico sottotitolo Identità, cultura e politica – sono garantiti dalla prospettiva teorica in cui Il cinema coreano contemporaneo si inscrive, quella dei Cultural Studies. Manovrando con padronanza il concetto althusseriano di ideologia come “relazione immaginaria degli individui con le condizioni reali della loro esistenza”, la studiosa coreana schiva agilmente il determinismo marxista basato sul materialismo economico e configura il cinema come “luogo della lotta” tra istanze di dominio e forze di resistenza (risuonano in questo passaggio chiari echi di Gramsci e Foucault). Ad arricchire e rafforzare ulteriormente l’apparato teorico di base la professoressa Lee chiama in causa un altro paio di discipline: l’ermeneutica in quanto pratica di attribuzione di significato e la semiotica barthesiana come metodologia adatta a scandagliare le connotazioni nascoste sotto la superficie (detto in modo più semplice, per leggere correttamente i simbolismi dei testi). A dire il vero il doppio ricorso all’ermeneutica e alla semiotica mi è parso più un orpello introduttivo che un’autentica necessità euristica, le due discipline restando sostanzialmente inattive per il resto del libro.
Articolato in cinque capitoli, Il cinema coreano contemporaneo passa in rassegna con immutata efficacia altrettante questioni: nel primo affronta la comparsa e il successivo sviluppo del cinema nella società coreana dal 1903 fino alla fine degli anni ’90; nel secondo, analizzando cinque adattamenti della storia d’amore tradizionale Ch’unhyangj?n realizzati tra il 1961 e il 1987, riflette sulle differenti declinazioni dei ruoli sessuali nel Nord e nel Sud della penisola a seconda del periodo; nel terzo, concentrandosi su sei pellicole di argomento politico/bellico girate tra il 1961 e il 1990, si interroga sul modo in cui le due Coree rappresentano la realtà della separazione nazionale; nel quarto getta uno sguardo sulla nozione di classe sociale a partire da sei film del nord e del sud prodotti tra il 1971 e il 1990; nel quinto – aggiunto ai precedenti in occasione dell’edizione italiana – la studiosa asiatica esamina infine La creazione di un blockbuster coreano, osservando come i cinque campioni d’incasso nazionale girati tra il 1999 e il 2005 (Shiri, JSA, Silmido, Tae Guk Gi: The Brotherhood of War e Welcome to Dongmakgol) rappresentino i luoghi privilegiati in cui definire la nuova identità transizionale della Corea come nazione culturalmente e affettivamente unita. Una grande famiglia.
_x000D_Chiudo con un’osservazione di carattere personale: pur non amando particolarmente l’approccio tentacolare dei Cultural Studies – che trovo spesso fumosi e dispersivi se non addirittura improduttivi – la sicurezza espositiva e la pertinenza della contestualizzazione di Hyangjin Lee mi hanno spinto a leggere e rileggere il libro con rinnovato interesse, segno che le frontiere metodologiche il più delle volte esistono soltanto per essere superate. Un libro imprescindibile, nonostante l’agghiacciante copertina.