TRAMA
Guido Anselmi, regista, vive una profonda crisi creativa e esistenziale.
RECENSIONI
In una stazione termale converge il mondo reale e fantastico di un cineasta: tirato per la manica dal produttore, raggiunto dall'amante, in rotta con la moglie, all'inseguimento di un'immagine femminea che sa di purezza e ispirazione, il regista non riesce a dare una direzione alla propria vita depressa e al film fantasma che si appresta a girare. Fatta erigere una mastodontica impalcatura, Guido non sembra sicuro di sapere cosa farne; al centro di una spirale esistenziale che ruota incessante e che risucchia tutto - vita vissuta, ricordi, sogni e immaginazione - dopo brucianti dubbi, tormenti e la fuga da una conferenza stampa capestro, si riconcilia con se stesso e riesce ad accettare gli altri e la propria confusione: il film si farà, anzi è già fatto. Il girotondo dei protagonisti, nel circo scenografico della vita, lo suggella.
Fellini individualista, tutto concentrato su se stesso, riesce ad assolutizzare la propria esperienza ed erige uno specchio barocco davanti al quale si compiace di riflettersi impudicamente; regista al lavoro, in lotta con ombre e luci della vita e del cinema, fa dell'artista in crisi e del buco creativo che lo affligge la propria opera. La realtà che si riverbera nell'Arte, l'Arte che si rispecchia in se stessa. Il film del film sul film, in un flusso di coscienza torrenziale, diventa archetipo imprescindibile che cambia il corso della storia del cinema: da allora una proliferazione, a tratti nefasta, di cinema ombelicale che non eguaglierà mai l'inarrivabile modello.
Più rigoroso di Amarcord, ma non meno fellinianamente sentimentalistico e consolatorio, 8 1/2 è risultato stilistico supremo; divagazione, improvvisazione certo, ma disciplinata e conchiusa in sè; prodotto di un artista in divino stato di grazia; girandola di meraviglie visive in un espressivo bianco e nero; acme creativo e perfetta sintesi dell'immaginario del grande maestro; uno dei vertici della Settima Arte. Elencare momenti e figure è davvero superfluo, il film si impone nella sua disarmante continuità, nella sua perfetta interezza. Per lo spettatore brividi estatici, possibile sindrome di Stendhal, pianto catartico nel finale: le anime sensibili sono avvertite.
Ottavo film e mezzo (comprendendo tre “mezzi” film: gli episodi di Boccaccio ’70, di Amore in Città e Luci del Varietà diretto a quattro mani con Alberto Lattuada) di Federico Fellini: un visionario, simbolico, delirante arabesco autobiografico dove sogni, ricordi d’infanzia e complessi psicologici si confondono in un’analisi acuta e multiforme di un film nel film, ad opera di un artista smarrito. Il produttore nella finzione, ad un certo punto, dice: “Io ho capito che cosa vuoi fare. Tu vuoi raccontare la confusione che un uomo ha dentro di sé”. Perché il tentativo, rivoluzionario, del vulcanico Fellini, è quello di mettere in immagini i flussi indisciplinati di pensiero e, meta-cinematograficamente, se stesso nel processo creativo in cui il prossimo film da realizzare non prende forma. Rivoluzionarie, anche, le soluzioni del linguaggio cinematografico e le sinergie musicali per farlo. Affresco avanguardista con il cuore, tortuoso labirinto onirico in cui è meglio perdersi che provare a navigare, come lo stesso Fellini auspicava, lontano da interpretazioni intellettualistiche, vicino al sentire e alle emozioni, perché in Fellini non c’è introspezione, ma proiezione. Enigma indecifrabile che lascia spossati ma felici.