TRAMA
Dopo aver inscenato la propria morte, un miliardario recluta una squadra di agenti per una missione violenta e audace alla ricerca di un brutale dittatore.
RECENSIONI
Nato dall'intenzione di dar vita ad un nuovo franchise – un altro! – con protagonista Ryan Reynolds, 6 Underground, il nuovo film di Michael Bay distribuito da Netflix, soffre di una discrepanza nella sua duplice natura.
Da un lato Bay cerca il divertimento più spensierato, fatto di gag, battutine, e da un approccio all'azione scanzonato nell'uso della violenza, tra motociclisti volanti, occhi fuori dalle orbite e apprensione per i cuccioli.
Dall'altro Bay non riesce a lasciarsi alla spalle il desiderio di trasmettere qualcosa di più profondo e rincorre la stessa idea di famiglia tra compagni d'azione portato in scena dalla saga Fast & Furious (con apice nel settimo capitolo), perseguendola con gli stessi mezzi: motori, inseguimenti, pallottole e sparatorie. Non ci sono Dwayne Johnson, Vin Diesel e Michelle Rodriguez ma ci sono Ryan Reynolds, Dave Franco e Mélanie Laurent. Laddove in Fast & Furious, pur non rinunciando all'ironia, il senso di famiglia allargata è un concetto promosso fin da subito, in 6 Underground si parte dal distacco. Ryan Reynold, alias 1, mette insieme una squadra di fantasmi i cui membri si chiamano solo per numero, un gruppo scelto reso invisibile dalla morte burocratica, a cui impone e si impone una recisione dei sentimenti sia tra compagni, sia col resto del mondo, un distacco tutelare volto a proteggerli da coinvolgimenti emotivi che possano avere dolorose conseguenze. Ma – come diceva Numero 6 ne Il prigioniero «I am not a number! I am a free man!» – da numeri a nomi, da macchine a uomini, si troveranno legati da un sentimento profondo, parte di un gruppo definibile in senso lato come famiglia.
Le due parti restano però disomogenee e non riescono a trovare la giusta alchimia e una vera coesione, alternando un divertimento sovraesposto e un sentimento familiare esasperato dagli iconici ralenti e lens flare tanto cari al regista; tutto è iperbolico ma in direzioni divergenti.
C'è poi da considerare altri dubbi su un'operazione del genere che riunisce un cast all-star – no, non siamo ai livelli del contemporaneo Knives Out, ma neanche un ensamble di sconosciuti – che invece si rivela un mero pretesto in un prodotto confezionato sulla figura esclusiva di Ryan Reynolds; infatti il film, a conti fatti, anche per l'uso dello splatter mai così marcato in un film di Michael Bay, risulta più affine a Deadpool che a Fast & Furious o Mission: Impossible. Inoltre non si può certo trascurare l'approccio politico del film che inventa un Paese arabo, il Turgistan, per poterlo farcire di stereotipi americani sul mondo islamico e in cui poter esportare in tutta sicurezza, in pieno patriottismo a stelle e strisce, la democrazia, preferendo invece aprire il film con una location ben precisa, Firenze, e su cui basare la campagna pubblicitaria a livello di buzz mediatico, dissacrando spensieratamente gli Uffizi e l'Accademia sulle note della Carmina Burana.
È allora nella prima parte – la più pura, la più riuscita – che meglio prende forma l'azione frenetica, decontestualizzata ma ugualmente magnetica; prima delle spiegazioni, prima che tutto abbia un inquadramento, in quei favolosi primi 20 minuti di inseguimento a Firenze, tra esplosioni, spruzzi di sangue, parkour su Santa Maria del Fiore – Assassin's Creed II docet! – e italianissimi diti medi sbandierati ai quattro venti; travolti solo dall'entusiasmo e da una situazione. Inoltre l'incipit della parentesi fiorentina premette e promette un montaggio serratissimo lavorato sul dettaglio - pinze, ferite tamponate, sangue, lo stemma dell'Alfa Romeo e il particolare dell'occhio tanto caro a Michael Bay: ricordate il particolare dell'occhio di Liv Tyler nel finale di Armageddon che apre la porta sullo specchio del ricordo del padre, Bruce Willis? - con tanto di avvertenza Netflix che mette in guardia gli utenti soggetti a epilessia fotosensibile, ma sono premesse e promesse non mantenute, che si esauriscono nella scena citata ma che non tornano più per l'arco dell'intero film.
Purtroppo, nonostante le costanti trovate, 6 Underground non riesce mai a raggiungere nuovamente la vetta della parte iniziale, a rilanciarsi con efficacia e ad esplodere in un climax finale, anzi approdando nella sensazione che la situazione conclusiva – la nave magnetizzata – non sia stata sfruttata a dovere, lasciando l'amaro in bocca – per contro basti pensare al crollo del grattacielo in Transformers 3 o all'esplosione dell'asteroide in Armageddon.
Michael Bay non è mai andato per il sottile, promuovendo un cinema costantemente esposto sovraccaricando d'emozione l'immagine. 6 Underground non fa certo eccezione, ma l'aggiunta dell'esasperata ironia e l'uso del tanto insistito citazionismo verbale con intenti autoparodici lo rende – con le dovute proporzioni, non di certo con i medesimi risultati – il P'tit Quinquin di Michael Bay.