Catastrofico

4:44 ULTIMO GIORNO SULLA TERRA

Titolo Originale4:44 Last Day on Earth
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata85'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Ed è così che il mondo finisce

RECENSIONI

Catastrofe. Questa la rovinosa ossessione consegnata al cinema dalla falange più significativa dei film della recente kermesse veneziana. Osessione oggettivatasi visivamente in arrangiamenti multiformi e cangianti, ma immancabilmente scanditi dal tambureggiare della fine imminente, del rivolgimento irreparabile, del crollo. L'ecatombe famigliare di Killer Joe, il tracollo finanziario di Life Without Principle, la disfatta privata di Un été brûlant, il trionfo del caos di Faust, le descrizioni incubico-junghiane di A dangerous Method (per non parlare della deriva degradante di Carnage o delle aliene visioni di L'ultimo terrestre): tutte manifestazioni di una sensibilità che nel teatro della catastrofe ha allestito l'ultimo stadio di un'umanità meschina, ridicola e irrimediabilmente ottusa. Ebbene, la punta di diamante di questa legione votata alla rovina è senza dubbio 4:44 Last Day on Earth, pellicola che si apre con un annuncio piuttosto eloquente: "Mancano 14 ore e 44 minuti alla fine del mondo". Responsabile del disastro annunciato è l'assottigliamento dello strato dell'ozono, una riduzione così consistente e irreversibile del filtro solare dell'atmosfera da determinare un'esplosione fatale per il pianeta e i suoi abitanti. Questione di schermo. O meglio di schermi: quelli che popolano l'appartamento di Cisco (Willem Dafoe) e Skye (Shanyn Leigh), che invadono chiassosamente il loro spazio (i televisori perennemente accesi) e che costituiscono il loro autentico legame affettivo col mondo esterno (il monitor del Mac col quale i due comunicano con amici e parenti). Non è affatto fortuito che la fine del mondo coincida esattamente e ineluttabilmente con la fine delle immagini: pronunciate le parole "Passeremo a un'altra sfera", lo schermo cinematografico si fa interamente bianco. Un accecamento della visione spettacolare che riecheggia gli incandescenti Hurlements en faveur de Sade di debordiana memoria. Termine estremo di un percorso iconoclasta perseguito con terribile, olimpica serenità: "Siamo già angeli" recita l'ultima battuta del film, epitaffio a un tempo risibile e insopportabile nel suo sottrarsi all'oggettività della rappresentazione cinematografica. Ancora un Blackout, o meglio un whiteout/without al termine della notte.

Con la medesima serafica attitudine che pervadeva Go Go Tales, la ronde finale e rassegnata dedicata al suo essere nella società dello spettacolo, Abel Ferrara si approccia in 4:44 Last Day on Earth all'Apocalisse, improvvisando pacato in un poema visivo a versi liberi ma stipati nel sentire borghese formato loft artistoide, nei residui di un kammerspiel ovattato nella banalità di una coppia di privilegiati, pettine a cui vengono indiscriminatamente tutti i nodi, amoralmente, luogo dove non esiste positivo né negativo. Come in Go Go Tales, e qui ancora più paradossalmente, la tragedia è soppressa: perché ammorbidita nella sua ineluttabilità, nel suo essere comunque inesorabile. Ma, soprattutto, è un'assenza che si fa placidamente satirica nel dimostrare l'effetto Placebo, l'alienazione che fino all'ultimo induce il sistema capitalista (tutti lavorano, sino all'ultimo), nuovamente il teatrino della società dello spettacolo (tutto è trasmesso, ogni cosa è mediata, sino all'ultimo), la mediocrità pirandelliana dei sentimenti (tutta la verità emotiva è ambigua, gli affetti si indossano e non si provano, sino all'ultimo). La Fine non cambia l'umanità, 4:44 Last day on the earth è (come in parte Melancholia di Lars Von Trier) un film sulla dipendenza, sull'addiction verso schemi e rituali che colmano l'uomo, lo accecano di credenze, dissidi patetici, necessità posticce, poesia povera. La sostanza umana, oggi, per Ferrara, è un dato, all'indagine sul furore dell'anima si è sostituito un percorso antropologico stilizzato, immersivo e a grado zero, commutato in un vortice sincretico sfliacciatissimo, grottesco e risibile come i dialoghi automatici della vita, autistico nel suo mappare sempre gli stessi luoghi di una poetica (consapevole dei propri limiti), eppure percorso da uno sguardo che trasuda umanesimo resistente nell'accarezzare quei corpi ottusi, con la camera digitale Red che danza con eleganza sopraffina sulle ceneri del low budget, sulle superfici prive di profondità a cui sono ridotti gli individui.

Alessandro Baratti & Giulio Sangiorgio


Sull’onda degli ultimi, non indimenticabili, lavori Abel Ferrara continua a trovare produttori disposti a rischiare per un’ispirazione che pare ormai definitivamente perduta. Succede anche in 4.44 Last Day In Earth, grazie al regista Pablo Larrain (Tony Manero, Post Mortem) questa volta  in veste di produttore, che gode di un soggetto non proprio originale (il mondo finirà tra un giorno, alle 4.44) ma inesauribile a livello di possibili spunti. Ferrara, anche sceneggiatore, realizza il suo Joan Lui (ricordate il flop di Celentano?) e non trova di meglio che concentrare le proprie ossessioni nel rapporto tra un uomo (il press-book dice un attore, ma non c’è modo di accorgersene) e una pittrice, chiusi nel loro appartamento in cerca di un significato definitivo. Lei si concentra sull’arte, e sparge pittura a destra e a manca, esprimendo probabilmente il suo disagio nel modo più intimo e viscerale. Lui osserva i segnali dell’imminente fine (c’è chi si butta dalla finestra) senza rassegnarsi e continuando a cercare un senso. Lo trova telefonando al figlio che ha con la ex-moglie, nella riscoperta di vecchi amici che non vede da tempo, e frugando il corpo della compagna, quando riesce a distrarla dal dipingere. In mezzo, una telefonata via skype del ragazzo delle pizze ai suoi genitori e immagini di repertorio, di vario tipo e formato, diffuse dai tanti video accesi nel loft, tra cui un discorso del Dalai Lama sull’inutile tentativo dell’uomo di dominare la Natura, qualche pippone ecologico sui pericoli del riscaldamento globale e alcuni simboli religiosi a ricordare il personale assillo del regista per la fede, il senso di colpa e il peccato. Fino agli imbarazzanti effetti digitali che mostrano l’arrivo della fine (perlomeno del film). Ovviamente rispettando i tormenti di ognuno, sentirsi vomitare dallo schermo un tale pot-pourri di banalità come se fossero grandi scoperte lascia prima di tutto perplessi, e poi stupiti sul credito che si continua a dare ad autori un tempo autorevoli che ora si limitano a raschiare il fondo del barile della creatività.