TRAMA
Il film, diretto da un ex-poliziotto e ispirato a un vicenda di cronaca francese degli anni 80, racconta gli avvenimenti che si sviluppano intorno allo scontro tra due poliziotti, Vrinks e Denis Klein, divisi da una antica rivalità non solo lavorativa.
RECENSIONI
Salutato come il ritorno in grande stile del polar francese, “36 Quai des orfèvres” è in effetti un film profondamente e inesorabilmente classico, che guarda a Melville mostrando però evidenti e continui riferimenti al poliziesco americano degli ultimi vent’anni, quello più radicato sul territorio notturno metropolitano e assuefatto a un certo glaciale realismo nella rappresentazione della violenza. Marchal si aggrappa saldamente alle sue fonti cinematografiche per mettere in scena una realtà che ha conosciuto in prima persona, riconducendo ogni elemento di questo drammatico evento di cronaca ai connotati stilistici e agli stereotipi di un genere che ha sempre tratto vigore dalla propria staticità, un genere che ingabbia qualunque personaggio e qualunque vicenda per ridurre ogni cosa alla sequenza primitiva dell’uomo di fronte alla morte, sia essa la propria o quella altrui. Questa sfida che contrappone due diverse visioni del mondo si configura immediatamente come un finale di partita segnato dal lento addensarsi delle nubi di un destino tragico, che non smette mai di vigilare sui due protagonisti: la vicenda, si snoda, sprofonda, procede nel tempo eppure finisce per essere soltanto un’estensione del momento dell’impatto dei suoi personaggi con il loro destino. Anche la colonna sonora, eccessiva e ridondante, sembra voler suggerire continuamente l’avvento della fine. La ragione per la quale il momento del giudizio che tutti percepiamo tarda ad arrivare è dato dal fatto che il film è la cronaca di due tentativi di devianza da quel destino, l’uno portato da un gesto di strenuo opponimento ad esso (Depardieu) e l’altro dal soccombimento di fronte ad alcuni tragici imprevisti che ne impediscono il compimento (Auteuil), l’uno è una fuga verso l’alto e l’altro la caduta dentro un abisso. I confini di una Parigi livida e del suo cielo di piombo sono le pareti di una scatola metallica contro le quali è destinato a soffocare qualunque tentativo di evasione, almeno fino all’avvento di una qualche giustizia suprema in grado di riportare gli eventi al loro corso naturale, ripristino tragico e violento dell’ordine delle cose. Peccato che la tentazione di affidare il finale a certi virtuosismi narrativi di una sceneggiatura alla ricerca dell’effetto abbia finito per annientare molte sfumature del rapporto tra i due protagonisti, al quale proprio sul finale viene a mancare una caratteristica fondante dei grandi polizieschi del passato, quel continuo sconfinamento del bene dentro al male che spesso avvicina pericolosamente poliziotti e criminali, producendo una comunanza di sentimenti che emerge da due diverse visioni del mondo rendendo il meccanismo del conflitto più complesso e difficilmente risolvibile.