
TRAMA
Nel 480 a.c. il re persiano Serse decide di invadere le Grecia. A tenere testa all’esercito proveniente dall’oriente ci sono soltanto 300 soldati…ma sono spartani.
RECENSIONI
E’ il trailer a catturare alla perfezione il senso ultimo di 300. Meglio: è la musica che accompagna il trailer a fornirci un’interessante chiave di lettura critica. Lo strumentale “Just like you imagined”, da Fragile dei Nine Inch Nails; il pezzo si apre con un breve fraseggio di pianoforte per poi lanciarsi quasi subito in un codificato crescendo reznoriano: incedere maestoso e ritmica spezzata su cui si spalmano chitarroni sintetici sfocianti in un fruibilissimo rumorismo elettronico. Roba confezionata da dio, ma roba vecchia. Era già vecchia nel ’99, in realtà, quando l’atteso, monumentale doppio album Fragile certificò dei NIN fermi a “The downward spiral” (1994), solo più tronfi e autoparodici nel reparto testi. Quel riferimento musicale (recuperato nel film a livello di maldestra citazione dalle musiche di Tyler Bates) è perfetto per il film di Snyder/Miller. 300, al pari dei NIN dell’ultima decade, ha sapore “vestigiale” (figlio di un metacompromesso) e la stessa pompa autocelebrativa. Ha i suoi momenti, certo, ma nonostante millanti qualcosa di nuovo (o almeno di “contemporaneo vivente”), è nato vecchio, fuori tempo massimo. Trent Reznor giocherella con l’estremismo musicale, si autocita, si aggrappa all’aura che lo circonda; quest’aura se l’è guadagnata mercificando l’estremismo sonico cyber-industriale, portandolo in classifica insieme a cinismo, blasfemia e iconoclastia. Ma sono passati anni, e quello che ci resta ora è la semplificazione/commercializzazione di una (allora significativa) semplificazione/commercializzazione. 300, da parte sua, arriva dopo Sin City, che si è già giocato la carta dell’annullamento estetico della distanza cinema/fumetto, della striscia/storyboard da traslare pedissequamente su pellicola fotogramma per fotogramma. 300 arriva dopo Il Gladiatore, che ha già (ri)portato in auge il machismo kolossale e l’Eroismo tout court. Arriva dopo Troy, che si è trastullato con la kitschizzazione postmoderna del Mito e della Storia che si compenetrano e si trasfigurano l’uno nell’altra. Arriva dopo Il signore degli anelli, che ha settato gli standard della grandeur epico-digitale-cinematografica, qualificando quello di “profilmico” come un concetto decisamente da aggiornare. 300 frulla tutto questo citando spesso alla lettera (campi di grano, flotte ed eserciti sterminati, giganti e “creature”) ma non ha il coraggio né la forza di spingersi fino in fondo in nessuna direzione, perché quella di Snyder non è roba seria. Continuando a saltabeccare: i Wolf Eyes, con il loro utilizzo caustico, urticante e disumano dell’elettronica, sono roba seria, una (specie di) versione “credibile” dei NIN, quello che i NIN non sono forse mai stati, che sicuramente non sono e non saranno più: estremi e incompromissori. E 300 non è i Wolf Eyes ma è, ormai s’è capito, i compromissori NIN. Un (bel) po’ di eroistico machismo, un po’ di postmodernia camp, un po’ di “annullamento distanza mediatica film-fumetto”, un po’ di magnificenze digital-fantasy ma niente di tutto questo spinto alle estreme conseguenze, sì da connotarsi definitivamente per dire davvero qualcosa al cinema dell’oggi (e magari del domani). 300 è un film che vive, certo, di momenti riusciti: tripudii di muscoli bisunti, colpi d’occhio maestosi, drag kings melliflui, parossismi eroico-epico-militari, ralenti oltranzisti ed enfasi enfatica. Ma è anche un film che ha paura di abbandonare una normalità filmica che diventa compromesso vigliacco e infine banalità pura e semplice: Realpolitik, giochi di potere, amore coniugale, materno e filiale, sotterfugi, corruzioni e tradimenti. Roba indigesta perché mal servita ma soprattutto avulsa dal “resto” che di buono il film ha da offrire, roba alla quale 300 non solo ha paura di rinunciare ma anzi, ne fa il collante edulcorante per rendersi smerciabile, piano, normale. Rinunciando così al tuffo decis(iv)o, se non nel futuro, almeno nel presente dell’entertainment cinematografico.
Futile Postilla
Sono finalmente riuscito a procurarmi (€28, Magic Press Comics) il fumetto di Miller-Varley. Ebbene, la lettura di questo 300 , oltre a lasciare immutata la mia “benevola indifferenza” nei confronti del medium, mi ha altresì fornito diretta conferma di alcune considerazioni fatte in sede di recensione. Il film di Snyder è sì fedele al fumetto di Miller (nel film c’è tutto quello che c’è nel fumetto) ma si prende due libertà: 1) dilata comprensibilmente i tempi; 2) fa sciagurate aggiunte. Riguardo al punto 1), c’è da dire che il romanzo grafico di Miller è assai breve e assai asciutto, da un punto di vista strettamente “narrativo”: 80 paginoni (cm32x25) molto (ben) disegnati e molto poco scritti, con un racconto che prosegue ellittico, per frasi a effetto, sentenze ed epigrafi. Era dunque, se non ovvio, senz’altro prevedibile un approfondimento narrativo delle singole situazioni. Ciò che era assai poco auspicabile era invece (punto 2) il campionario di aggiunte apocrife che stridono terribilmente col canone milleriano e che annacquano il testo filmico fino a renderlo brodaglia: “Realpolitik, giochi di potere, amore coniugale, materno e filiale, sotterfugi, corruzioni e tradimenti” (Io, poco sopra), tutta questa “roba indigesta” (Id.) nell’originale o è appena accennata (la moglie-regina di Leonida compare in due tavole e dice tre brevi frasi, Leonida stesso la nomina una sola volta, in punto di morte) o è del tutto assente.

Realizzato con la tecnica del green screen, ricostruisce il profilmico e tutti gli ambienti al computer con un’inedita stilizzazione fumettistica ed uno straordinario effetto tridimensionale. Rispetto alla medesima tecnica applicata a Sin City, guarda caso sempre tratto da Frank Miller, Zack Snyder va oltre (o a lato, indietro), nel momento in cui non porta gli stilemi delle strisce al cinema per creare una sperimentale opera “altra”, ma utilizza questa tecnica per essere del tutto fedele, graficamente, drammaturgicamente e tematicamente, alle tavole originarie (1995) che, poi, erano ispirate a L’Eroe di Sparta di Rudolph Maté (1963: e nessuna pretesa di accuratezza storica). Un magnifico copia-e-incolla: lo stesso splendore barbarico, la stessa violenza (più fine che mezzo), la stessa riflessione sull’Arte della Guerra. La stessa elaborazione cromatica e complessità grafica. Gli stessi difetti: se il film di Maté richiamava la guerra d’indipendenza dagli inglesi, qui si evocano fino alla nausea i valori di libertà e giustizia di un popolo “cristiano” e geneticamente connotato contro i nemici dall’Asia (quelli attuali, i persiani come gli iraniani, forse gli integralisti islamici), miscuglio di razze più sessualmente spregiudicato. Piaccia o non piaccia, un’iconografia con feticismo ed arte della violenza che ha fatto scuola.
