TRAMA
Dal fumetto di Steve Niles e Ben Templesmith “30 giorni di notte” (“30 days of night” nel fumetto-film originale), con una traduzione italiana che preferisce misteriosamente il “buio” alla “notte”. A Barrow, in Alaska, i cittadini si preparano per la consueta notte di 720 ore, ignari che un’orda di vampiri farà loro visita…
RECENSIONI
La parte migliore di questo western-horror carpenteriano è senz’altro il prologo: le atmosfere congelate hanno un loro perché e l’attesa dei 30 giorni di buio promessi dal titolo è costruita con un minimo sindacale di cura e competenza cinematica; in fondo David Slade (Hard Candy) ha non disprezzabili trascorsi videoclipparoli e nel curriculum figurano pure autorevoli nomi Warp come LFO e Sua Elettronicità Aphex Twin. Certo, già la bocca si storce e il sopracciglio si alza, perché alcuni personaggi sono fossili “di genere” deambulanti (il burbero che, si sa, avrà modo di mostrare a tutti il suo cuore d’oro e magari di sacrificarsi per gli altri. C.v.d.), perché si mettono in campo dinamiche interpersonali di ovvietà offensiva (la coppia in crisi pronta a rispolverare l’amore mai sopito) e perché anche gli oggetti non sfuggono a una certa logica del “sai già perfettamente cosa succederà tra un po’” (il tritatutto gigante, cui viene dedicato un piano fisso abbastanza lungo da farci pre-vedere un vampiro in balia delle meccaniche fauci). Ma insomma. Se ci avessero dato qualche suggestione visiva, un ritmo sostenuto, un po’ di gore e un buon finale, un occhio lo avremmo chiuso volentieri. Macché. Il film prende una brutta piega e inizia a girare a vuoto quasi subito, confermando e ribadendo l’orda di clichè (anche registici, purtroppo) annunciati e arrancando nel tentativo di costruire una tensione che non riuscirà mai a prendere forma, inibita da continue soluzioni di continuità. Il problema, forse, maggiore è che l’attacco dei vampiri non sembra seguire una sua logica interna e non permette di costruire sequenze si suspense degne: stanno nascosti o gironzolano spavaldi? Attaccano solitari o in branco? Fanno assalti furtivi o palesi? Capita dunque che una fuga su un pick-up venga interrotta dopo pochi metri da un manipolo di mostri inferociti sbucati dal nulla, che poi (o intanto?) si verifichi un momento di calma in cui si può pure fare due passi per strada e che l’inquadratura successiva sia invece una plongée mobile sulla città sfacciatamente “invasa”, con sbranamenti ovunque e clima apocalittico. Si sonnecchia, insomma, fino alla fine, quando un colpo di scena demenziale ci risveglia dal torpore (la narrativamente assurda autovampirizzazione del protagonista, che comunque implode in un duello non all’altezza delle aspettative) e ci prepara al finale vero e proprio, che si vorrebbe insieme biblico (cenere alla cenere) ed epicamente melodrammatico, ma che rasenta invece il ridicolo.
Adattamento cinematografico dell’omonima “graphic novel di culto” (cfr. trailer) di Steve Niles e Ben Templesmith, 30 giorni di buio è un horror artico dal timbro pensosamente riflessivo. Ciò che colpisce maggiormente dell’opera seconda di David Slade è difatti l’accigliata pensosità dei suoi protagonisti (non dei vampiri: quelli più che pensare grugniscono e aggrediscono) e il senso di opprimente angoscia che incombe sull’oscurata cittadina di Barrow, propaggine estrema degli Stati Uniti e obiettivo privilegiato della comitiva vampiresca. Novello Renfield, uno Straniero (luridamente interpretato dallo splendido Ben Foster) spiana la strada all’arrivo dei vampiri nichilisti, che, addentando piranhescamente la popolazione residua di Barrow (già, perché i più dritti se la sono squagliata prima dell’ultimo tramonto), non intendono risparmiare nessuno, un po’ per senso del dovere, un po’ per evitare che si sparga la voce della loro esistenza. Situazione ideale per imbastire un’elegia dell’assedio, ma anziché carpenteggiare prevedibilmente, Slade risale alle radici western del topos: nientemeno che Un dollaro d’onore (1959) di Howard Hawks (peccato manchi una versione techno del Deguello). Il regista inglese, classe 1969, possiede un potente talento visivo (diabolicamente aphexato) e, spalleggiato dalla terrea fotografia di Jo Willems (già cinematographer di Hard Candy), abbonda in primissimi piani per coagulare la tensione in apprensione mentale e in stacchi di montaggio incuranti dei costrutti sintattici per creare un’atmosfera di continua instabilità. Concentrazione stilistica, questa, culminante in una ripresa “a volo d’avvoltoio” che trasfigura il teatro del massacro in una planimetria imbrattata di sangue: un senso del dominio visivo di inconfondibile matrice grafica. Col passare dei minuti il tambureggiare della minaccia (enfatizzato dallo score percussivo di Brian Reitzell) si irrora copiosamente di emoglobina (notevole la fine della bambina doppiamente accettata) e la tensione imbocca percorsi più canonici, fino a regalare allo spettatore un duello drogatissimo in uno scenario fiammeggiante che somiglia ardentemente a una discoteca (cfr. l’ncipit del sottostimato The Hunted di William Friedkin). Fico. Più che convincente la prova di Josh Hartnett nei panni preoccupati dello sceriffo Eben Oleson (chiaro update del John T. Chance di wayniana memoria) e di maestoso, carbonizzante romanticismo il finale aurorale (che fa chiasmo, anche plastico, col crepuscolo iniziale). Unico rammarico è che Ben Foster (assai simile a David Patrick Kelly, il leggendario Luther di The Warriors) sia segregato in un ruolo minore. Barrow, Alaska: una Dogville decanizzata.