Mélo, MUBI

2046

Titolo Originale2046
NazioneCina, Francia, Germania, Hong Kong
Anno Produzione2004
Genere
Durata129'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

1967, Hong Kong. Chow Mo-wan per sbarcare il lunario, scrive romanzi a puntate. Sceglie di vivere in alberghi di terza categoria. Alloggia nella camera 2046, il numero di stanza che era stata sua e della donna che non ha mai dimenticato.

RECENSIONI

Il 2046, lo ricorda la voce fuori campo alla fine, è la data in cui Hong Kong passerà definitivamente alla Cina dopo il periodo di transizione in cui è stata abbandonata dagli inglesi: ma non è proprio limpido il link allegorico fra questo evento e il racconto che visioniamo. Fatto sta che era anche il numero della stanza dove gli amanti di In the Mood for Love si davano appuntamento: di quell’opera, 2046 non è un seguito, ma un remake sperimentale, con lo stesso interprete/ruolo. Un ambizioso quanto poco risolto trattato sull’amore, quando l’opera precedente era, più semplicemente, un bel film d’amore. Il caos e la prolissità rispecchiano, da un lato, i sentimenti del protagonista che gira a vuoto, dall’altro la lunga gestazione del film, con vari problemi nella post-produzione e nei tagli al budget. Ritornano gli stilemi delle inquadrature interrotte da linee verticali che restringono lo spazio (in ogni dialogo maschio/femmina, chi è di spalle è tagliato fuori da una parete, come a rimarcare la solitudine di innamorati che, appunto, non condividono mai la stessa “inquadratura”), dei ralenti insistiti, degli studi cromatici. Nell’episodio ambientato nel futuro sono stilizzati anche gli effetti digitali, per “disegni” palesi che vogliono discostarsi dal realistico. Ancora un soundtrack variegato e particolare: a parte il solito leit-motiv che ritorna in varie versioni (‘Siboney’ eseguita da Xavier Cugat e da Connie Francis), ci sono anche i temi musicali di Finalmente Domenica! di Truffaut e Non Uccidere di Kieslowski, più Casta Diva, Dean Martin, Nat King Cole.

2046 - un po’ sequel, un po’ variazione su tema di In the Mood for Love - se dimostra l’assoluta padronanza di uno stile da parte del suo autore, risulta piuttosto carente sul piano del disegno e della scrittura: puntando su una struttura molto aperta, in cui risulta facile far confluire quantità abbondante (e non tutta necessaria) di materiale narrativo, l’autore non tiene d’occhio l’equilibrio dell’opera, cadendo questa in un’aneddotica contratta, ridondante e (diciamolo) un po’ banale. 2046 mischia il racconto delle avventure erotiche del suo protagonista alla narrazione del romanzo di fantascienza che sta scrivendo e che nasconde tra le righe il fantasma dell’amore che fu (il 2046 rappresenta un futuro-chiave che può essere raggiunto con un’apposita navicella: in esso forse è possibile ritrovare i ricordi perduti, anche se nessuno può garantirlo visto che chi vi arriva non fa mai ritorno); intersecandosi i vari percorsi narrativi, i racconti del protagonista - condannato a un destino di vacuo, intristito seduttore che sparge dolore intorno a sé -, fanno avanti e indietro nel tempo della sua vita (il main theme) e di quella delle sue amanti (passioni di consumo che suonano da contrappunto), scelta che dimostra l’intento di Wong Kar-wai di spostare l’attenzione dal particolare, quasi chiuso in se stesso, del predecessore, a un dato generale più aperto e meno elusivo, mutamento di prospettiva che però non sembra gestire al meglio, perdendo in lucidità e senso della misura. Il film risulta infatti balbettante da un lato, dispersivo dall’altro, in esso il didascalismo e la sottolineatura imperano sovrani (le scritte, il voice over) non concedendo al narrato nessuna chance di fascinazione o mistero. Frammentario (per scelta, certo), 2046 mischia le carte (l’inizio fantascientifico, con ampio uso di computer graphic) giocando fin troppo coscientemente con il mito cultizzato del predecessore (la confessione del proprio segreto sussurrata al buco praticato in un albero, leit motiv ribadito in eccesso) e con un mazzetto di temi e simbolismi (il destino che gioca sempre con le medesime date – lo stesso 2046 è anno cruciale per Hong Kong, come non manca di ricordarci il finale -; l’amore chimerico; l’infelicità che si sparge come un morbo) oramai noti e che hanno condotto alle accuse di una deriva manierista per il maestro orientale.
Se In the Mood for Love aveva dalla sua l’efficace ritratto di un sentimento inespresso che rendeva struggenti le sue immagini curatissime e - in virtù di tale motivo, molto ben sviluppato - mai puramente e semplicemente decorative, qui ci troviamo di fronte a un catalogo di belle (a tratti bellissime) figure che, non supportate da una base narrativa parimenti coinvolgente (avendo, beninteso, il cineasta un evidente, opposto obiettivo), si riduce a campionario (a momenti inerte) di estetismi (formali e concettuali) persin stucchevoli. 2046 è insomma un film d’ibridismo incerto in cui, forse per la prima volta nella carriera del regista, la sua opera si piega a un intellettualismo lezioso e a un corredo di soluzioni prevedibili (la consueta musica exotica di sottofondo; i filmati di repertorio; le perfette mise delle attrici fermate in immagini che, a decine, potrebbero essere perfette copertine di album lounge), con molti flash magnifici che col resto non riescono a farsi film, toccando il loro vertice nella sequenza in cui l’eroe romanzesco creato da Chow bacia l’androide, simulacro deteriorabile del Ricordo che mai torna indietro.