TRAMA
Abel Morales è un imprenditore di successo che vuole restare pulito in un ambiente in cui nessuno lo è, e in una città infestata dal crimine e dalla corruzione. Rischia però di perdere tutto quello che ha costruito.
RECENSIONI
Ci sono alcune famose pagine in Pastorale Americana di Philip Roth, che ho sempre trovato formidabili a differenza di quasi tutti quelli con cui ne ho parlato (anche quelli che hanno amato quel romanzo), che le considerano invece la parte più insopportabile del libro. Mi riferisco a quando Roth si mette a spiegare il business dei guanti, come funziona la fabbrica dei guanti, come è fatto il prodotto, il disegno, le dita, i gusti dei consumatori – uomini e donne. Il lettore è costretto a calarsi in un groviglio di dettagli tecnici, tessili, industriali, economici – e restarci per un bel po’. Altri autori, forse, avrebbero mirato al nocciolo ideale della faccenda – gli affari, il commercio, l’ascesa di un imprenditore immigrato secondo il copione del Sogno Americano – senza perdersi nel nitty-gritty dei processi produttivi. Dopotutto, un’industria vale l’altra, no?, l’azienda dei Levov avrebbe potuto produrre anche bulloni industriali o costumi da bagno, e l’impronta morale del romanzo sarebbe rimasta la stessa.
C’è però una forza incredibile nelle storie che emergono dalle cose, piuttosto che venire imposte dall’alto dall’autore onnisciente. Il brulicare di dettagli tecnici può sembrare insignificante per chi vuole distillare un senso simbolico dai fatti; ma la realtà trabocca di minuzie e la cosa più difficile e potente del narrare è mostrare come da questi brandelli di vita emergano dei possibili (ambigui, tentativi, faticosi) disegni di senso.
C’è un tipo di narrazione densa ed elevata che abbraccia i fatti dall’alto per mostrare la portata delle idee che li vogliono spiegare. C’è invece quell’altro tipo di narrazione che nasce in basso tra le apparenti insignificanze della vita – i dettagli trascurabili e umili, irrilevanti per il disegno complessivo – per animare di vita vera e vibrante le storie che emergono nel complesso. Ci sono svariati modi in cui un autore può guardare ai dettagli – ma il modo in cui lo fa, quel movimento del racconto che piomba verso la concretezza singolare delle cose e si aggancia alla realtà e alla vita, è cruciale per il risultato alla fine ottenuto: se si tratta, cioè, di una parabola allegorica o di uno squarcio nella realtà delle cose.
J. C. Chandor è certamente un appassionato delle technicalities. Ha intitolato il suo film d’esordio (Margin Call) al nome gergale che si usa per la richiesta di integrazione della copertura di una posizione di investimento sui mercati in caso di variazione significativa del valore oltre il margine iniziale. Eh? Tutto il film, in realtà, sguazza nei dettagli tecnici. E lo fa con rigore e programmaticità, con lo stesso piglio solenne e la stessa tensione che il regista medio riserva alle scene di roulette russa. Non c’è nessun tentativo di svicolare dal ristretto ambito di realtà su cui il film ha deciso di costruire la propria storia. Anzi, la pressione è centripeta: lo sguardo di Chandor insiste claustrofobicamente verso il cuore delle minuzie. Da lì, per Chandor, muove la tensione drammatica e il senso della narrazione. Chiunque, dovendo raccontare una storia di finanza sente l’urgenza di scappare dal soggetto per trovare angoli drammaticamente sensati (pensate a La grande scommessa o a The wolf of Wall Street). Chandor invece si rinchiude nella nicchia dei fatti e scava caparbiamente verso l’interno. Questa fissazione è affascinante, anche perché Chandor non lo fa con lo spirito balzacchiano di chi vuole descrivere la società, ma con l’ardore filosofico di chi vuole scoprire una qualche verità ultima.
Succede la stessa cosa in questo A most violent year (tradotto in italiano con la solita intenzione di turlupinare gli spettatori). Un’industria di nicchia (oli combustibili per il riscaldamento), al cui confronto i guanti di Roth erano un argomento di acchiappo, un imprenditore serio e compreso nel suo ruolo, dei camion rapinati, dei concorrenti sleali, problemi di contabilità – minuzie commerciali, insomma. E, soprattutto, nessun grosso evento, nessuna trasformazione dei personaggi: le cose si muovono di poco, millimetri forse centimetri, come accadde nella vita vera. Eppure, pur piantato testardamente in questa forma di realismo tecnico (che è anche, se volete, un cinema delle superfici, che mostra tutto ciò che c’è da vedere) Chandor evoca altro: il Capitalismo, la Violenza, il Potere. Difficile dire come ci riesca, sguazzando tra eventi assai poco evocativi: questa è la bravura di Chandor, e il mistero di come si riesca a costruire un’atmosfera convincente e pervasiva. Di sicuro una buona parte del merito va a Oscar Isaac, Jessica Chastain e il resto del cast: il segreto di A most violent year è tutto nella postura e nell’attitudine con cui gli interpreti caricano le minuzie di Chandor di spessore contemplativo.
È un esercizio che può infastidire gli spettatori meno inclini a questo tipo di sfalsamento tra l’apparente superficialità e un’obliqua indeterminata profondità. Certamente c’è un certo gusto formalistico, una sorta di virtuosismo del banale in cui Chandor evidentemente si diverte: vi faccio un film che si svolge in 24 ore su una questione di vendita di titoli in borsa; vi faccio un film con un attore solo e senza dialoghi su un tizio su una barca in mezzo all’oceano; vi faccio un film su un venditore di oli combustibili per riscaldamento, minacciato dai concorrenti, che vuole difendere l’azienda senza commettere reati.
Chandor raggiunge il suo scopo, in quest’ultimo film più che negli altri, grazie a un maggiore equilibrio tra scrittura, atmosfera, interpretazioni. La combinazione tra una sceneggiatura controllatissima e asciutta, lo sfondo di una New York periferica e minacciosa, e l’equazione sottile tra capitalismo e criminalità, rimandano a James Gray, Sidney Lumet e Francis Coppola. Isaac, dopo la morte di Philip Seymour Hoffman, è il migliore attore in circolazione. Manca il guizzo a Chandor, come sempre – ma è un autore da tenere in grande considerazione.