TRAMA
Durante la Prima Guerra Mondiale due soldati britannici, Blake e Schofield, sono incaricati di una missione apparentemente impossibile: riuscire ad attraversare il territorio nemico per consegnare un messaggio di vitale importanza che potrebbe salvare la vita di centinaia di soldati, compreso il fratello di Blake.
RECENSIONI
Quando il sole sorge lungo una trincea francese in piena Prima Guerra Mondiale, un soldatino inglese riceve l’ordine di consegnare una lettera ad un plotone accampato a molti chilometri di distanza, per bloccare un’azione militare prevista per il mattino seguente, destinata a soccombere nel sangue di un’imboscata nemica. Il soldatino comincia così a correre lungo una terra di nessuno, schivando gli aerei tedeschi, oltre il fango e i cadaveri di soldati e animali, città distrutte, cecchini in agguato. Il tempo scorre, la vita di centinaia di soldati è nelle sue mani. Il potenziale è ricco, eppure 1917 sembra accontentarsi di giustificare la propria esistenza su di un solo elemento. Un virtuosismo tecnico. Un (finto) piano sequenza – anzi, due – dalla funzione meramente ornamentale, un vezzo tecnico gestito con maestria, ma che non si pone mai veramente né come riflessione teorica (sul tempo, sul tempo dell’immagine o del cinema) né come strumento realista. Nel dinamismo della macchina, il suo cambiare continuamente posizione, alterna certamente prospettive e punti di vista. Forse possiamo farlo coincidere con il tempo interiore del protagonista. Lungo tutta la visione rimane però una sensazione allibente, un’incredulità a forma di punto interrogativo: un tale sfoggio di grandeur cinematografica per cosa, a quale fine, per quale (misero) risultato? La montagna che partorisce il topolino. Una corsa senza stacchi da un’alba all’altra che non rende l’esperienza della visione mai veramente immersiva. L’angoscia, l’affanno, perfino l’eroismo risultano prostetici: non siamo mai dentro al film, dentro l’orrore di una guerra dai connotati storici non sempre ben definiti (ma va bene così, l’esperienza soggettiva del soldatino impaurito fra le trincee di inizio secolo scorso non comporta necessariamente una comprensione generale del quadro geopolitico in cui il conflitto si esprime). 1917 rimane così sempre sospeso a metà, fra un desiderio realista da un lato (il sangue, le trincee, la guerra) e uno slancio all’universalità dall’altro (la vita, il tempo, la morte) ma, appeso al cappio del volere piacere senza disturbare, finisce per non sporcarsi mai le mani. Il peccato mortale dell’operazione giace nel suo mancato coraggio di essere quello che è palesemente stuzzicato di essere, senza averne mai l’audacia di dimostrarlo fino in fondo: un videogioco (eppure la “critica del videogioco” è paradossalmente l’accusa più diffusa fra i detrattori del film). Un videogioco è adrenalinico, un esercizio cinetico, un’esperienza sensoriale che mira ad essere assoluta. Sam Mendes un tentativo lo fa, quando nell’accampamento abbandonato dai tedeschi scoppia un ordigno-trappola, il protagonista è momentaneamente privato della vista e si affida ai comandi-joystick del compagno per uscire da un labirinto sotterraneo di macerie: “salta”, “fermo”, “corri”. L’episodio rimane purtroppo un guizzo isolato e il film prosegue ammantato nella noia, emotivamente anestetizzato. Rinunciando ad essere fino in fondo un cine-videogioco, 1917 rinuncia quindi a se stesso: rinuncia ad una personalità stilistica, ad una presa di posizione storico-narrativa, finisce per accontentarsi di una dedica, un cartello in fondo al film per ricordare il nonno del regista, anch’esso soldato nella Prima Guerra Mondiale, sperando che questo salvi tutto, senso ed emozione, come se bastasse a commuovere, a giustificare.
Alla fotografia di Roger Deakins il compito di sorreggere tutto. Ed è eccellente, ci mancherebbe, soprattutto in quella che forse – assieme al momento nell’accampamento tedesco già citato – è l’unica scena degna di nota del film: la fuga di notte nella città bombardata, contrasto fra la notte e le macerie ancora fumanti, un quadro apocalittico e spettrale. Per il resto, Deakins è lasciato ad illuminare una scenografia precisa, realistica ma mai veramente reale, dove anche la polvere e il sangue sembrano puliti, dove i cadaveri dei soldati e le carcasse degli animali non suscitano mai orrore o ribrezzo, truccati come sono alla stregua di veri e propri manichini. Una falla sensoriale non da poco in un film che basa tutto sulle sue doti tecniche. Debolissima anche la drammaturgia, una fiacchezza di scrittura che si manifesta su più fronti, che sarebbe stata accettabile in una dimensione pienamente videogiochesca, ma che invece si dimena nell’inutile fino a sfociare nell’ingenuità più sconcertante, nel ridicolo involontario. “Il tempo è il vero nemico” recita la tagline del poster. Eppure il soldatino sa quando prendersi i suoi tempi. Ad esempio quando dimostra la sua umanità con una donna rifugiata sotto le rovine di una casa distrutta, con in braccio un neonato di cui si deve prendere cura. È l’unico personaggio femminile dell’intero film e si comprende la necessità di darle un adeguato screen time, ma quantomeno perplime l’escamotage da miracolo pentecostale, un dialogo che inizia giustamente nell’incomprensione – lui inglese, lei francese – ma che poi magicamente evolve in una comunicazione di fatto. Altro tempo il soldatino se lo prende quando stremato si appoggia ad un albero per ascoltare un altro soldato cantare, mettendoci tutta la durata della canzone per realizzare di essere arrivato a destinazione. Ed è poi incredibile come, dopo essere stato trascinato dalle acque impetuose di un fiume in piena, precipitando giù in fondo ad una ripida cascata, ecco che quando finalmente arriva al cospetto del generale a cui deve consegnare la fatale missiva (cartacea), questa viene estratta dal taschino perfettamente intonsa, così come le foto di famiglia su cui sospira nel finale mentre la musica si va ad alzare. War movie mentale? Action esistenziale? Kolossal realistico? Sperimentazione al tempo della rivoluzione digitale? 1917 è indeciso da che parte stare, essere tutto, non essere niente. Manca il coraggio. Non è cosa da poco.