TRAMA
Diciassette momenti chiave della vita di Cécile Cassard: sposata e madre del piccolo Lucas, perde il marito in un incidente. Lasciato il figlio all’amica Edith, comincia un vagabondaggio che la conduce a Tolosa…
RECENSIONI
Quello di Cécile Cassard è un viaggio dantesco nell'oscura selva del dolore: l'elaborazione del lutto si presenta come un percorso totalizzante, un cammino accidentato che impasta la vita di lacrime, in cui persone si incontrano e si lasciano, si trovano cose nuove, altre si perdono. Già da questo film il cinema di Honoré si afferma come entità mobile e frastagliata, un territorio dai confini indefiniti in cui tutto può accadere, di coordinate cangianti che non consegnano il racconto ad alcuna regola premeditata. L'apparizione a Cécile del fantasma del marito morto, nella prima scena, dà subito la misura del rapporto che il regista vuole intrattenere con il realismo; il modo in cui i personaggi vengono presentati ed elaborati dimostra, poi, un approccio antipsicologico, lontano dalle consuete convenzioni narrative, più vicino a certe istanze poetiche dell'avanguardia teatrale.
L'identità di Cécile, distrutta dal dolore della perdita del consorte, si ricostruisce in diciassette frammenti di vita ed esperienza all'interno di un mondo in cui sembra vagare come una straniera. Avendo lasciato il figlio alla migliore amica (reputandosi un pericolo per lui), la donna, la cui testa è diventata la maison de morts, immersasi nelle acque di un fiume, riemerge in una Tolosa onirica, popolata di figure maschili. Honoré punteggia la parabola della protagonista con un registro visivo incostante, con attenzione formalistica alla composizione del quadro e ai cromatismi, ma spesso abbandonandosi alla suggestione estetica pura, a un simbolismo indecifrabile, insistendo sul tono vaneggiante e visionario della storia: il risultato è un ritratto che non giunge a conclusioni certe, un puzzle incompleto che lascia in sospeso molti interrogativi e che narra, senza puntellarlo con elementi consequenziali, di un risveglio alla vita, di un catartico percorso per sfuggire alla catatonia della sofferenza interiore.
È un film acerbo, ma già pieno di una spregiudicatezza stilistica e di una vena sperimentale che, in forme variegate, si manifesteranno nelle opere successive (la musica, firmata da Alex Beaupain, ha già un ruolo precipuo); opera che ribolle di riferimenti (da Genet a Cocteau) è inoltre una prima dichiarazione d’amore nei confronti del cinema di Jacques Demy, un omaggio deviato al suo primo film Lola (Cécile/Lola e Roland Cassard [1] sono i due protagonisti del film del 1961 – Duris si trasforma in Anouck Aimée e canta l’evidente omaggio -) di cui rilegge alcuni temi in una nuova chiave. E, come in quel caso, anche 17 fois sembra alludere a uno sdoppiamento cronologico e identitario, nell’intrico di piste che stravolge i piani logico-temporali.
[1] Roland Cassard - che è anche un personaggio di Les Parapluies de Cherbourg - è lo pseudonimo col quale Christophe Honoré ha firmato il suoi pezzi critici per i Cahiers du Cinéma.