TRAMA
Lo scrittore Mike Enslin, specializzato in “luoghi stregati/maledetti”, vuole trascorrere una notte nella mortifera camera 1408, dell’hotel Dolphin di New York…
RECENSIONI
L’unica curiosità è che non avevo intenzione di finirlo. Ho scritto le prime tre o quattro pagine come parte di un capitolo di On Writing, con l’intento di mostrare ai lettori l’evolversi di una storia dalla prima alla seconda stesura. Volevo fornire soprattutto esempi concreti dei principi di cui andavo blaterando. Ma poi è successa una cosa strana: la storia mi ha sedotto e alla fine l’ho scritta per intero. Così Stephen King nell’introduzione al racconto 1408, racconto che, alla fine, risulterà avere una sua coerenza. Se si eccettua, infatti, la parte legata all’utilizzo dei deliri vocali del protagonista registrati sul fido voice recorder (l’impressione è che avrebbero dovuto inizialmente giocare un ruolo più rilevante, magari addirittura “portante”, nella costruzione della storia), il racconto pare imboccare decisamente la strada del dubbio e del mistero non schiettamente paranormali. Mike Enslin perde progressivamente il senno a suon di visioni non plateali né particolarmente terrificanti (porte sghembe, quadri storti, menu multilingue cangianti), comincia ad avere le vertigini, a dire/registrare cose senza senso, a “sentire voci” (telefoniche) fino a che non commette una sciocchezza e si dà fuoco con dei fiammiferi (ma si salverà, grazie al vicino di stanza). Tutto qua. A questa cinquantina di pagine, Håfström e suoi sceneggiatori appiccicano un prologo e un epilogo nuovi, un dramma familiare, un lutto non elaborato, il fantasma di una bambina, una non-svolta centrale del tipo “E’ tutto un sogno. Anzi, no.”, un po’ di bigiotteria horror a buon mercato (apparizioni improvvise, ectoplasmi, creature) e qualche sequenza riuscita (il “clone dirimpettaio”, la piccola glaciazione). Il risultato è ben poco continuo e coerente, come se dopo quelle prime tre o quattro pagine senza previsione di sbocco/epilogo di cui parla King, il racconto (cinematografico) fosse proseguito con le idee poco chiare sul compimento e completamento della vicenda, tra svolte, ripensamenti, derive banalizzanti e il classico finale a finta-sorpresa. La confezione è di quelle che, per pigrizia, definirem(m)o corrette, senza guizzi registici degni di nota ma con sporadici picchi di visionaria efficacia, mentre la recitazione di Cusack, non si sa quanto volontariamente, sembra indicare a volte la rotta della commedia.