TRAMA
Nella Parigi dei primi anni Novanta, il giovane Nathan decide di unirsi agli attivisti di Act Up, associazione pronta tutto pur di rompere il silenzio generale sull’epidemia di Aids che sta mietendo innumerevoli vittime.
RECENSIONI
Robin Campillo inscena il movimento Act Up-Paris ricostruendolo dalla prospettiva della conoscenza diretta: «Mi sono unito ad Act Up nell’aprile del 1992, più o meno a dieci anni dall’inizio dell’epidemia di Aids. Fin dal primo incontro a cui ho partecipato, sono rimasto profondamente colpito dall’entusiasmo del gruppo, considerando che quegli anni sono stati i più duri del contagio». Sceneggiato con Philippe Mangeot, ex membro di Act Up, 120 battiti al minuto sceglie di coniugare i due scenari sintetizzati nella dichiarazione del regista: la capacità di azione del movimento e il dramma sottovalutato della malattia. Per questo si offre come film diviso nettamente in due parti, seppure con rispettive contaminazioni: nella prima il racconto rappresenta proprio il movimento, attraverso le discussioni e gli atti dei militanti, nella seconda segue la storia d’amore tra Nathan e Sean (Arnaud Valois e Nahuel Pérez Biscayart), segnata dalla tragica evoluzione della malattia di quest’ultimo. I due macroblocchi narrativi non sono isolati, però, anzi si intrecciano a vicenda e dialogano tra loro: se i segni di degenerazione in Sean emergono già nelle lunghe riprese delle assemblee, al contrario nella fase terminale del ragazzo interviene la scena della manifestazione che diventa dichiarazione di essenza, riportando il piano all'universale. Questo, per Campillo e Mangeot, significa la costruzione di un concetto preciso: i due temi, la mobilitazione e l’Aids, sono storicamente inscindibili, in quegli anni marciavano insieme, l’uno non poteva essere senza l’altro. Di conseguenza, nei loro ricordi messi in narrativa, il pubblico e il privato suonano intimamente legati, affermano che il privato è politico dimostrandolo sul campo: nel dibattito sull’approccio contro le case farmaceutiche Sean annuncia, senza mezzi termini, che non c’è più tempo perché sta morendo. Tra i due livelli avviene una sovrimpressione.
Nel blocco più strategico e teorico, l’autore allestisce il movimento non santificandolo, ma vedendo i suoi nodi complessi e contraddittori: per esempio la divergenza sulle azioni dimostrative, come tirare sangue finto su una figura pubblica, che rischiano l’effetto opposto; e soprattutto la spaccatura sul carattere mediatico della campagna, predicato da Sophie/Adèle Haenel (personaggio omosessuale come l’attrice), con alcuni militanti accusati di volere apparire che si difendono - al contrario - sostenendo l’utilità della presenza invasiva su giornali e televisione. Nel frattempo all’esterno Act Up non sempre viene compreso: la stessa comunità gay disimpegnata non capisce la campagna, respinge i metodi aggressivi, preferisce un’ignara quotidianità. Questioni anche intricate, quelle riposte nel tessuto, che pur parteggiando apertamente per gli attivisti cerca di problematizzare, disegnando l’affresco di una società restia ad accogliere esattamente come di un movimento che spesso non sa spiegarsi. Nel più archetipico processo dal generale al particolare, poi, Campillo lascia la coralità e slitta decisamente sull’amore tra Nathan e Sean: un melò terminale, parabola già scritta che ci precipita nel concreto, in carne e sangue, mostrando esemplarmente cosa accadde a tanti attivisti. Così, dopo averne discusso l’implicazione politica (in caso di contagio c’è una responsabilità dello Stato, si dice), il film guarda in faccia la morte, vuole farsi straziante attraverso una preparazione cosciente che aumenta il picco drammatico: dunque i giovani, prima del peggioramento, vanno amabilmente alla spiaggia per l'idillio finale. Opera politica perché fa politica, saldo di un debito autobiografico, 120 battiti al minuto è prova di cinema civile corretto e divulgativo: qui tutto è chiaro, l’impegno di Act Up come l’iniquità del sistema come il dolore dei sieropositivi. Malgrado alcune invenzioni di Campillo alla regia (l’inizio, la scena erotica in ospedale, il finale giocato in astrazione), esso si risolve in un film “a doppia tesi” che espone i suoi sentiti argomenti, il movimento e la malattia, limitandosi alla loro illustrazione sostanziale.
Gran premio della giuria al Festival di Cannes 2017.
