TRAMA
11 cortometraggi di 11 registi internazionali per riflettere sui tragici fatti dell’11 settembre 2001.
RECENSIONI
Undici autori di fama internazione sono chiamati dal produttore televisivo Alain Brigand per dirigere altrettanti cortometraggi (della durata di undici minuti, nove secondi e un fotogramma) ispirati ai tragici eventi dell'11 settembre 2001. Preceduto da infinite polemiche legate al presunto anti-americanismo dell'opera (sembra che tutto sia partito da un giornalista del magazine "Variety" prima ancora di vedere gli episodi), il film e' invece un interessante documento in grado di far riflettere. Ogni episodio e' preceduto da una cartina geografica che evidenzia la provenienza del regista. A tal proposito, si spera che il film non venga doppiato. Un'unica lingua rischia sicuramente di appiattire il risultato, annacquando le tante voci che hanno collaborato alla realizzazione. Ma entriamo nel dettaglio. Samira Makhmalbaf, fedele al suo stile (che rischia, come tutto il cinema iraniano visibile ai festival, la "maniera") presenta una maestra che cerca di far capire ai suoi piccoli alunni cio' che e' successo a New York. Claude Lelouch, inguaribile ottimista, costruisce una breve storia d'amore tra una guida turistica per audiolesi e una ragazza sordomuta. Sara' proprio la tragedia a salvare l'amore. L'egiziano Youssef Chahine va giu' pesante, creando un suo alter-ego che si rapporta con il fantasma di un marine americano morto a Beirut. E' sicuramente l'episodio piu' didascalico e meno riuscito, anche se alcune frasi come "Basta con il circolo vizioso di una felicita' distruttiva!" lasciano il segno. Danis Tanovic lancia un messaggio di pace universale, unendo il dolore dei morti americani a quello delle donne di Srebrenica, che l'undici di ogni mese manifestano in piazza per ricordare la strage di musulmani per mano dei serbobosniaci dell'11 luglio 1995. L'africano Idrissa Ouedraogo firma l'episodio piu' divertente (tranquilli, si ride amaro!) ipotizzando che un bambino veda Bin Laden proprio nella sua città e si dia da fare, insieme ad alcuni amici, per catturarlo e riscuotere così la taglia di venticinque milioni di dollari per guarire la madre malata. Ken Loach presenta invece l'inserto piu' doloroso, il piu' distruttivo emotivamente. Crea infatti un parallelo tra l'attentato alle Twin Towers e il colpo di stato in Cile datato 11 settembre 1973. Il regista alterna immagini di repertorio alla lettera recitata da un esule cileno a Londra, Vladimir Vega autore anche delle musiche, che chiede, con profondo rispetto, solidarieta' ai familiari delle vittime americane per gli oltre trentamila morti causati dal colpo di stato appoggiato fortemente dal governo americano. Uno sguardo lucido che spezza il cuore e apre gli occhi. Il messicano Alejandro Gonzalez Inarritu riporta lo spettatore ai giorni dell'attentato e mostra - in un crescendo sonoro formato da grida, annunci radiofonici, notiziari, preghiere - lo schermo completamente nero squarciato da piccoli flash di corpi che cadono dalle torri. Unica didascalia finale "La luce di Dio ci guida o ci acceca?". Amos Gitai sceglie il virtuosismo cinematografico con un unico ineccepibile piano sequenza, in cui un'arrivista cronista vede oscurare la notizia di un attentato a Tel Aviv dalla notizia dell'attentato americano. L'indiana Mira Nair opta per la storia vera di una famiglia pakistana, che vede scambiare il figlio scomparso per uno degli attentatori. Sean Penn, unico americano del gruppo, filma con grazia e una buona dose di cinismo, il redivivo Ernest Borgnine che vive solo pensando costantemente alla moglie morta. Nonostante quanto diffuso dai giornali, l'interpretazione dell'episodio non e' cosi' immediata e il finale, sicuramente d'effetto, manca d'incisivita'. Shohei Imamura conclude il film con l'episodio piu' criptico, in cui un soldato giapponese ritorna dal fronte dopo Hiroshima convinto di essere un serpente.
Sentire tante voci diverse e' un'ottima occasione di confronto e un esperimento costruttivo per interpretare cio' che e' accaduto, al di la' di quello che i mezzi di informazione o i documentari celebrativi sono in grado di spiegare. Non tutti gli episodi hanno la stessa intensita', anche dal punto di vista prettamente cinematografico, ma ognuno racconta un modo di sentire ed e' questa la vera forza del film. Un'occasione di guardare anche laddove non avremmo pensato. Cercare di capire significa prima di tutto ascoltare, eventualmente filtrare, ma di sicuro non chiudere gli occhi aprioristicamente.
Quello che i giornali non dicono
Undici autori di fama internazione sono chiamati dal produttore televisivo Alain Brigand per dirigere altrettanti cortometraggi (della durata di undici minuti, nove secondi e un fotogramma) ispirati ai tragici eventi dell'11 settembre 2001. Preceduto da infinite polemiche legate al presunto anti-americanismo dell'opera (sembra che tutto sia partito da un giornalista del magazine "Variety" prima ancora di vedere gli episodi), il film e' invece un interessante documento in grado di far riflettere. Ogni episodio e' preceduto da una cartina geografica che evidenzia la provenienza del regista. A tal proposito, si spera che il film non venga doppiato. Un'unica lingua rischia sicuramente di appiattire il risultato, annacquando le tante voci che hanno collaborato alla realizzazione. Ma entriamo nel dettaglio. Samira Makhmalbaf, fedele al suo stile (che rischia, come tutto il cinema iraniano visibile ai festival, la "maniera") presenta una maestra che cerca di far capire ai suoi piccoli alunni cio' che e' successo a New York. Claude Lelouch, inguaribile ottimista, costruisce una breve storia d'amore tra una guida turistica per audiolesi e una ragazza sordomuta. Sara' proprio la tragedia a salvare l'amore. L'egiziano Youssef Chahine va giu' pesante, creando un suo alter-ego che si rapporta con il fantasma di un marine americano morto a Beirut. E' sicuramente l'episodio piu' didascalico e meno riuscito, anche se alcune frasi come "Basta con il circolo vizioso di una felicita' distruttiva!" lasciano il segno. Danis Tanovic lancia un messaggio di pace universale, unendo il dolore dei morti americani a quello delle donne di Srebrenica, che l'undici di ogni mese manifestano in piazza per ricordare la strage di musulmani per mano dei serbobosniaci dell'11 luglio 1995. L'africano Idrissa Ouedraogo firma l'episodio piu' divertente (tranquilli, si ride amaro!) ipotizzando che un bambino veda Bin Laden proprio nella sua città e si dia da fare, insieme ad alcuni amici, per catturarlo e riscuotere così la taglia di venticinque milioni di dollari per guarire la madre malata. Ken Loach presenta invece l'inserto piu' doloroso, il piu' distruttivo emotivamente. Crea infatti un parallelo tra l'attentato alle Twin Towers e il colpo di stato in Cile datato 11 settembre 1973. Il regista alterna immagini di repertorio alla lettera recitata da un esule cileno a Londra, Vladimir Vega autore anche delle musiche, che chiede, con profondo rispetto, solidarieta' ai familiari delle vittime americane per gli oltre trentamila morti causati dal colpo di stato appoggiato fortemente dal governo americano. Uno sguardo lucido che spezza il cuore e apre gli occhi. Il messicano Alejandro Gonzalez Inarritu riporta lo spettatore ai giorni dell'attentato e mostra - in un crescendo sonoro formato da grida, annunci radiofonici, notiziari, preghiere - lo schermo completamente nero squarciato da piccoli flash di corpi che cadono dalle torri. Unica didascalia finale "La luce di Dio ci guida o ci acceca?". Amos Gitai sceglie il virtuosismo cinematografico con un unico ineccepibile piano sequenza, in cui un'arrivista cronista vede oscurare la notizia di un attentato a Tel Aviv dalla notizia dell'attentato americano. L'indiana Mira Nair opta per la storia vera di una famiglia pakistana, che vede scambiare il figlio scomparso per uno degli attentatori. Sean Penn, unico americano del gruppo, filma con grazia e una buona dose di cinismo, il redivivo Ernest Borgnine che vive solo pensando costantemente alla moglie morta. Nonostante quanto diffuso dai giornali, l'interpretazione dell'episodio non e' cosi' immediata e il finale, sicuramente d'effetto, manca d'incisivita'. Shohei Imamura conclude il film con l'episodio piu' criptico, in cui un soldato giapponese ritorna dal fronte dopo Hiroshima convinto di essere un serpente.
Sentire tante voci diverse e' un'ottima occasione di confronto e un esperimento costruttivo per interpretare cio' che e' accaduto, al di la' di quello che i mezzi di informazione o i documentari celebrativi sono in grado di spiegare. Non tutti gli episodi hanno la stessa intensita', anche dal punto di vista prettamente cinematografico, ma ognuno racconta un modo di sentire ed e' questa la vera forza del film. Un'occasione di guardare anche laddove non avremmo pensato. Cercare di capire significa prima di tutto ascoltare, eventualmente filtrare, ma di sicuro non chiudere gli occhi aprioristicamente.