TRAMA
Decima Camera del Tribunale Correzionale di Parigi, maggio – luglio 2003: momenti tratti da dodici casi.
RECENSIONI
Grazie a un’autorizzazione eccezionale [1], Raymond Depardon (fotografo, fondatore dell’agenzia Gamma, e autore di oltre quindici film, tra cui 1974: UNE PARTIE DE CAMPAGNE, su Valéry Giscard D’Estaing, e DéLITS FLAGRANTS, girato presso il Tribunale di Parigi) riprende nell’arco di tre mesi circa duecento persone coinvolte in pubbliche udienze: le due ore di film che ne risultano (frutto di una selezione a dir poco ardua) sono cinema allo stato puro, di una durezza e di uno splendore difficili da rinvenire nel cinema (cosiddetto) di fiction. Col tono antidimostrativo che è sua cifra caratteristica, 10E CHAMBRE, INSTANTS D’AUDIENCES aderisce a una massima semplice e (quasi) invariabilmente dimenticata – specie da quei registi che dichiarano di “ritrarre la realtà” –, riassumibile nella frase di Hitchcock (e Truffaut): “Un regista non ha niente da dire: deve mostrare”.
Depardon non intende ritrarre la realtà nel senso più banale del termine, ossia rendere conto dello svolgimento delle udienze (la didascalia che apre il film spiega il titolo: si tratta di “istanti” scelti dal regista in modo arbitrario) o pontificare sulle decisioni del Presidente del Tribunale (il giudice Michèle Bernard-Requin, già presente in DéLITS FLAGRANTS) e sull’efficacia delle sanzioni. La verità giudiziaria non interessa al regista: la definizione dei crimini e delle punizioni è compito del Presidente, di volta in volta assistita (od ostacolata) da pubblici ministeri, avvocati, parti civili e imputati. Quel che interessa a Depardon è una realtà al tempo stesso più astratta e più concreta, di una portata che trascende le esistenze degli individui (da una parte e dell’altra della sbarra[2]): la realtà cinematografica.
Come afferma il pubblico ministero di uno dei casi, l’arte è “il mezzo per cui il reale diviene visibile”: indagando la realtà del processo tramite i mezzi del cinema, il film rende visibile e palpabile non la verità ma la sua costruzione discorsiva, la messa in scena delle diverse versioni di un fatto, le rappresentazioni di un mondo (del mondo) che le varie personæ contrappongono di volta in volta con soffocata violenza, timida deferenza, apparente distacco, sproloquiante alterigia, spenta disperazione.
Posti nella (scomoda) posizione del Presidente, assistiamo non solo alla recita offerta dagli individui [una doppia recita: gli imputati sono al corrente della presenza delle telecamere (hanno firmato l’autorizzazione alle riprese), ne fanno più volte menzione e rivolgono le loro dichiarazioni alla Corte quanto all’obiettivo] ma all’esplorazione operata da Depardon sul corpo di tale racconto scenico. L’abilità con cui il regista usa il bisturi del cinema (la scelta delle inquadrature, la profondità di campo, la selezione dei dettagli, il montaggio, il mixage) cattura su pellicola non solo la rappresentazione ma il backstage, quello che le persone vorrebbero tenere nascosto persino a se stesse (un esempio su tutti: il sociologo deciso a “smontare scientificamente” il meccanismo dell’udienza e che si trova a decostruire solo la propria cieca arroganza ammantata di pedisseque citazioni).
(A)morale ed ellittico (per gli ultimi casi non sono presentati i relativi verdetti), 10E CHAMBRE rivendica senza spocchia, ma con estrema fermezza, la parzialità propria di ogni sguardo che l’arte posa sul reale, ma si astiene dall’emettere giudizi, lasciando l’ultima (e la sola) parola alle immagini. Una grande lezione di cinema (e di stile: in questo caso sono sinonimi) su cui non pochi “documentaristi” dovrebbero meditare a lungo.